Aragoste a Manhattan: recensione del film di Alonso Ruizpalacios

La recensione del film del regista messicano Alonso Ruizpalacios con Raúl Briones e Rooney Mara. Al cinema dal 5 giugno 2025.

Aragoste a Manhattan, questo il titolo scelto da Teodora Film per l’uscita di La Cocina nelle sale italiane dal 5  giugno 2025, dopo le anteprime alla 74esima Berlinale e al Festival Cinema Africano, d’Asia e America Latina, ultima fatica di Alonso Ruizpalacios, senza alcun dubbio una delle figure di maggiore spicco del cinema messicano. Il regista di Città del Messico è tornato dietro la macchina da presa a tre anni da Una película de policías con un film tratto dalla pièce del 1957 di Arnold Wesker, The Kitchen, già portata sul grande schermo nel 1961 dall’inglese James Hill.

Aragoste a Manhattan è un “valzer” di storie e un giro di vite di personaggi nel quale varie culture si mescolano

Aragoste a Manhattan cinematographe.it

Da allora però la realtà e la società sono molto cambiate, fra crisi economica, tensioni politiche, conflitti e pandemia. Il mondo insomma ha subito un’ulteriore involuzione e non è più quello che aveva portato sul palcoscenico lo scrittore e drammaturgo britannico. Motivo per cui Ruizpalacios in fase di scrittura ha apportato delle modifiche al racconto, alla cornice e ai personaggi, che però non hanno intaccato quelli che sono lo spirito e i messaggi che animano la matrice, a cominciare dallo spostamento dell’azione ai giorni nostri, passando da Londra a New York. Il “campo di battaglia” resta invece invariato, ossia le topografie delle cucine di un caotico e iper-frequentato ristorante, in questo caso il The Grill in quel di Times Square, con annessa la sala al centro della quale è posizionato il grande acquario dove sono esposte in bella mostra le aragoste chiamate in causa nel titolo che poi verranno servite in tavola. Qui lavora una moltitudine di persone, locali e proveniente dalle diverse latitudini, ognuno con i suoi problemi, ognuno con le sue isterie. Il che fa di Aragoste a Manhattan un “valzer” di storie e un giro di vite di personaggi nel quale varie culture si mescolano. Tra di loro ci sono il cuoco di origine messicana, Pedro, e una cameriera americana, Julia. Al centro del film c’è la loro tenera e burrascosa storia d’amore. Quando Julia scopre di essere incinta, Pedro prova a convincerla a non abortire, immaginando per loro due un futuro diverso, tanto più che la direzione ha promesso di fargli ottenere il tanto agognato permesso di soggiorno. Le cose però si complicano quando viene scoperto un furto nella cassaforte del ristorante e nell’arco di una sola, incredibile giornata sarà messo in gioco il destino di tutti.

In Aragoste a Manhattan tutto si consuma nell’arco del servizio giornaliero di un caotico e multietnico ristorante di New York

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Tutto inizia con il risveglio della cucina alle 7 del mattino e termina poco prima del servizio di sala per la cena. Quasi una giornata intera passata all’interno di quegli spazi che funzionano come una sorta di grande catena di montaggio gastronomica che sforna ogni giorno 4.000 portate, dove la qualità del cibo conta poco, dove si incontrano uomini e donne di diverse provenienze, dove nasce l’amore e l’odio, dove l’avidità di denaro la fa da padrona, dove ci sono avance sessuali non richieste, dove le piccole ruberie sono all’ordine del giorno, dove nascono e muoiono in un attimo risse e litigate furibonde, dove il più forte prevale sul più debole, dove inevitabilmente il razzismo serpeggia, dove assistiamo alla lotta per elevarsi da una classe sociale ad un’altra, dove la speranza per un futuro migliore viene schiacciata dalla certezza di un futuro peggiore, dove si parla della pena di morte, dove la qualità delle cose non ha più importanza, dove non c’è il tempo per instaurare un’amicizia, dove l’assenteismo è cosa quotidiana, dove le scenate di gelosia e le litigate futili rallentano il lavoro, dove la sicurezza sul lavoro non si sa cosa sia, dove impera la slealtà, dove essere sbruffoni serve a imporsi sugli altri, dove è impossibile sognare, dove il ricordo recente della seconda guerra mondiale non serve ad evitare altri conflitti, dove bere alcol è l’unica via di uscita per una vita grigia, dove l’aiutare gli altri non è cosa comune.

In Aragoste a Manhattan, il ristorante che fa da cornice diventa una sorta di “ospedale psichiatrico”, laddove deflagrano nevrosi e tensioni etniche

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In Aragoste a Manhattan, il ristorante in questione diventa una sorta di “ospedale psichiatrico”, laddove deflagrano nevrosi e tensioni etniche, parti delle quali l’autore aveva già rappresentato in un suo cortometraggio del 2008, Café paraíso, anch’esso ambientato nella cucina di un ristorante popolato da dipendenti proveniente da diverse aree geografiche, ma anche provato sulla sua pelle quando lavorava come lavapiatti e cameriere al Rainforest Café nel centro di Londra, per pagarsi gli studi durante gli anni dell’università. In tal senso, il The Grill si trasforma in una specie di pentola a pressione destinata a implodere una volta raggiunta la temperatura massima in un epilogo catastrofico che ricorda quanto accade, vomito escluso, nella cena a bordo della nave da crociera di Triangle of Sadness. E come nella pellicola di Ruben Östlund, e nella sua filmografia in generale, anche in quella del collega messicano si assiste a una lotta di classe e a uno scontro gerarchico tra i rappresentati posti ai diversi livelli della scala di potere, con un complesso sistema di caste che ancora esiste nelle cucine e che è parte essenziale del loro funzionamento. Da questo punto di vista, quello di un osservatore esterno, Ruizpalacios propone una  rappresentazione degli States attraverso il microcosmo di una grande cucina. E anche in quel caso ci si trova al cospetto di una visione metaforica che si traduce e si trasferisce sullo schermo sotto forma di un ritratto impietoso dell’America tra i due mandati di Donald Trump, dell’America dell’omicidio di George Floyd, di un Paese dove si arriva a disincentivare l’aborto o comunque a farlo pagare profumatamente come ogni prestazione sanitaria. Un Paese che più e più volte i personaggi che si alternano in scena nei loro accesi confronti verbali non definiscono mai tale. Ricorrente è infatti la frase pronunciata a turno dai dipendenti: «l’America non è una nazione!».

Aragoste a Manhattan non è solo un dramma, ma anche un’opera profondamente politica

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Le differenze razziali dei lavoratori, le provenienze differenti, l’avidità del datore di lavoro e soprattutto la grande voglia di fuggire via. I cuochi del film sono perlopiù immigrati irregolari, domenicani, messicani, e in quello spazio, si scivola facilmente dall’inglese allo spagnolo. Il film funziona con un continuo bilinguismo. Al cospetto di tale babele di idiomi si consiglia dunque la fruizione di una copia in versione originale, poiché la componente linguistica è parte integrante e fondante del discorso affrontato dall’opera in questione. Serve per sottolineare le barriere e gli ostacoli che si vengono a creare in quel microcosmo che fa da cornice alla vicenda, ma anche da specchio che riflette la condizione lavorativa, sociale e umana di chi lo anima. Questo fa di Aragoste a Manhattan non solo un dramma che mostra in maniera non edulcorata, finta o spettacolare cosa accade in una cucina a differenza della rappresentazione idealizzata di certe pellicole patinate a sfondo culinario che fanno dell’estetismo gastronomico da cinema gourmet il motore portante o nella stragrande maggioranza dei cooking show (in questo assomiglia molto a Boiling Point – Il disastro è servito e alla serie The Bear), ma anche un’opera profondamente politica che a suo modo si presenta con la lente dell’oggi e le “armi” a disposizione come un atto di protesta contro le politiche anti-migratorie della presidenza Trump, lo sfruttamento del sistema capitalistico sui lavoratori, la prevaricazione dei potenti sui più deboli, la sopraffazione della classe dei privilegiati su quella dei lavoratori svuotati di sogni e di energia vitale.

Durata eccessiva rispetto alle reali esigenze drammaturgiche, ma i guizzi stilistici, la confezione estetica e le performance attoriali rendono scorrevole la fruizione

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Tutto questo magma incandescente si riversa sullo schermo in un film che, al netto di una durata forse eccessiva (140 minuti) rispetto alle reali esigenze narrative e drammaturgiche, gode di una regia funzionale e dai grandi guizzi stilistici (vedi il potentissimo e impattante piano sequenza con tanto di allagamento che si consuma nei diversi spazi del ristorante) che riescono a sopperire all’ingabbiamento topografico dell’unità di luogo dettato dall’impianto teatrale (accentuato dal mascherino in 4:3) della pièce a cui si ispira. Le poche sortite esterne nei vicoletti vicini, al Central Park o nel consultorio per l’aborto della cameriera Julia, arrivano sempre al momento giusto per fare rifiatare lo spettatore. E poi a impreziosire la confezione arriva la scelta, anch’essa funzionale per svuotare di estetismi la messa in quadro e in scena, del bianco e nero della fotografia di Juan Pablo Ramírez (unica eccezione data al coloro è la scena dell’amplesso nella cella frigorifera virata in blu), oltre alla performance corale di un cast davvero ricco e variegato, nel quale spiccano Raúl Briones, Rooney Mara e Anna Díaz.

Aragoste a Manhattan: valutazione e conclusione

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Nella sua nuova fatica dietro la macchina da presa Alonso Ruizpalacios rimette mano con la lente dell’oggi alla pièce teatrale di Arnold Wesker, The Kitchen, dando forma e sostanza a un film profondamente politico che attacca senza misure l’America delle presidenze Trump. Lo fa con un’opera ispirata che infligge fendenti con il potere delle metafore, trasformando la cucina di un caotico ristorante al centro di Times Square in un “campo” di battaglia dove di scontrano differenze, caste e forme mentis. Il risultato è un ritratto che non fa sconti, incorniciato da un 4:3 avvolto in un drammatico bianco e nero e segnato da pennellate registiche degne di nota. Il tutto impreziosito da performance attoriali di grande intensità, a cominciare da quelle di Raúl Briones e Rooney Mara che con i rispettivi personaggi animano all’interno del racconto corale una coinvolgente quanto tormentata storia d’amore.    

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

4