Alpha: recensione del film da Cannes 78
Il film di Julia Ducournau, presentato in concorso alla 78ª edizione del Festival di Cannes
In Alpha tutto c’è ma tutto svanisce. Tutto è corpo ma al contempo incorporeo. La materia si trasforma, evapora, implode. La carne si indurisce fino a farsi pietra, poi si sgretola, diventa sabbia, si disperde. Julia Ducournau, regista francese ormai marchiata a fuoco dalla Palma d’Oro vinta per il precedente Titane, torna in concorso a Cannes con un’opera anch’essa estrema, criptica, dolorosamente coerente. Un’opera che conferma la sua visione autoriale, viscerale, biologica, spietata. A interpretare la giovane protagonista c’è la rivelazione Solène Rigot, mentre nei panni dello zio troviamo Vincent Rottiers, entrambi eccezionalmente diretti, entrambi chiamati a incarnare e deformare una corporeità sull’orlo del collasso. La fotografia iper-saturata e disturbante di Ruben Impens (già al fianco della regista nei precedenti lavori), la colonna sonora inquieta e martellante di Jim Williams e il montaggio ellittico firmato da Laure Gardette contribuiscono a creare un mondo in preda al disfacimento. Alpha è un’opera che sfrutta il facile aggancio a un immaginario pandemico per raccontare invece tutt’altro: tossicodipendenza, sieropositività, alienazione giovanile. Un film che divide la critica ma resta incancellabile nella memoria visiva e sensoriale di chi lo attraversa.
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Lo sgretolarsi dell’individualità

L’incipit è una dichiarazione d’intenti, brutale e poetica insieme: una bambina percorre con un pennarello il braccio dello zio, unendo dei puntini come in un gioco da enigmistica. Ma quei segni non sono disegni innocenti: sono in realtà cicatrici di un male terribile, che si avventa rosso sulle vittime di questa futuristica furia pandemica. La pelle diventa mappa del dolore, terreno instabile e increspato di un mondo che si sta già disgregando. Questa stessa scena, speculare e chiusa in sé stessa, ritorna alla fine, ma si ripete già in prima battuta: al posto del pennarello, un ago; al posto del gioco, il gesto definitivo del tatuaggio, una lettera incisa sulla carne, la A. Alpha, come l’inizio, come l’origine e forse anche come la fine. Il film segue la tredicenne protagonista, con una madre, ago della bilancia tra il suo malessere e la sua salvezza, all’ombra di uno zio che potrebbe essere tutto o niente: riflesso, allucinazione, mostro o doppio. Quando torna a casa con quel tatuaggio sul braccio, tutto comincia a precipitare. Il sangue, la sabbia, l’epilessia, la febbre, la rabbia. I ricordi si confondono, i corpi si deformano, la narrazione diventa febbrile. E sarà lo spettatore, alla fine, a dover unire i puntini per tentare di dare un senso al caos.
Alpha racconta due solitudini che forse sono una sola. La ragazza e lo zio si rincorrono, si specchiano, si contraddicono. Due corpi fragili, contaminati, segnati, che lottano per resistere a un destino già inciso nella carne. La malattia li attraversa, li confonde, li riduce a materia friabile. L’uno potrebbe essere l’allucinazione dell’altra, o forse entrambi manifestazioni di uno stesso trauma. Il virus che pietrifica diventa così metafora della progressiva perdita di sé. L’individuo si disgrega, si trasforma, non si riconosce più. La rabbia esplode, la memoria vacilla, la pelle si incide. E in questo scenario disturbante si muove un racconto che si nutre di metafore corporee per raccontare una realtà che è già di per sé abbastanza cruda. Il Titano che prima inglobava adesso si insinua, non più accoglie ma ora si espande. Il corpo non è rifugio, il corpo è trappola. La malattia non è solo fisica, è anche sociale, affettiva, mentale. La pietra, la sabbia, il sangue infetto non sono immagini: sono identità in frantumi.
Alpha: valutazione e conclusione

Il narrato segue un andamento temporale sfalsato di continuo, che prima mostra e poi dimostra, che spiega sempre a ritroso ma arriva alla fine ad aver ben definito ogni pezzo del puzzle. Un montaggio sperimentale, emblematico per l’avanguardistico afflusso femminile dell’edizione 2025 del Festival di Cannes: a livello registico, si accompagna a scelte radicali, a tratti estreme: la macchina da presa si avvolge ai corpi, li bracca, li seziona. Abbondano primi piani, dettagli anatomici, frammenti epidermici. Ogni scena è costruita per portare sotto pelle, per far sentire l’ago, il graffio, la pulsazione. La fotografia abbandona la compostezza per abbracciare il caos, l’incompleto. La colonna sonora, dilatata e disturbante, amplifica la sensazione di febbre, di urgenza, di presenza. Alpha è un film che non si guarda, si subisce. Un’esperienza che invade e contamina, che s’incide e non guarisce. La rappresentazione del corpo qui si fa totale: non solo mostrata, ma trasmessa. Alpha ti fa entrare quell’ago, ti fa annegare in quel sangue infetto, ti infetta con la sua estetica malata e lucida. Cinema del sintomo, cinema della dissoluzione.