2551.01 – recensione del film sperimentale di Norbert Pfaffenbichler

Il film di Norbert Pfaffenbichler presentato al Fantafestival di Roma è un esperimento espressionista di ciò che può essere considerata una condanna all'emarginazione.

Quello di 2551.01 è un mondo sotterraneo popolato di emarginati. Un uomo che salva un bambino durante un frenetico scontro con la polizia. Cuniculi oscuri, popolati da mostri e da incubi. Una speranza: quella di portare alla luce la purezza, di sconfinare quella terra di nessuno per sottrarsi all’orrore e all’omertà.

Il cinema austriaco regala una perla estetica e concettuale, una partitura visuale che si struttura episodicamente secondo una linea narrativa già battuta. Al Fantafestival di Roma 2022 viene presentato 2551.01, film seriale di Norbert Pfaffenbichler, uscito nel 2020 e che si indirizza verso un’impostazione sperimentale e a tratti videoartistica. 

2551.01: la rappresentazione del diverso attraverso Chaplin e il cinema tedesco

2551.01 Cinematographe.it

In un connubio di accelerazioni e decelerazioni visuali, intessendo una composizione estetica fondata sulla convergenza tra simbolismo esoterico e rappresentazione diegetica, si compone una variante testuale del mito chapliniano del Monello. La commistione di toni e di costruzione dell’inquadratura formalista si esplica attraverso il ricorso a stilemi propri del cinema espressionista tedesco, unendo il kammerspiel all’estetica orrrorifica di cineasti degli anni ’30 come Murnau, Wiene o Lang. 

Claustrofobia significa nel film di Pfaffenbichler immersività spettrale: i lunghi cunicoli poco illuminati sono labirintici trappole della caducità umana, che qui viene sconvolta metaforicamente attraverso la rappresentazione del diverso, del mostruoso. L’emarginato chapliniano si muove nel degradante mondo sotterraneo insieme all’infante, rappresentazione della purezza primordiale e motivo di rivalsa sociale. 

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La disumanizzazione del fragile e dell’incompreso è l’incontrovertibile tentativo di mostrare, in modo dissacrante, una denuncia sociale che si avvale del medium cinematografico per tentare di sconvolgere lo spettatore, introiettandolo dentro un mondo distante dal proprio – sia temporalmente che spazialmente –  ma di cui si riescono a cogliere in modo netto i contorni simbolici di un’ingiustizia sociale predeterminata e mai denunciata. In un universo orrorifico e perturbante un singolo mantiene la propria umanità, cercando di salvare un bambino innocente, ma viene comunque sempre additato come mostro, diverso, ripugnante. Il montaggio alternato con inquadrature apparentemente scardinate, ma che nel finale si ricongiungono, è emblematico di tale contrapposizione tra il protagonista e gli altri personaggi, che si mostrano indifferenti (e dunque sempre colpevoli per la loro omertà), oppure ostili all’avanzare verso la strada della salvezza. 

Il perturbante freudiano che si esplicita con i volti delle bambole e le maschere da Barbie dei bambini dell’orfanotrofio e della loro educatrice permettono il dischiudersi di quello che potrebbe essere considerato il momento di maggiore tensione emotiva e impressiva del film: lo spettatore sperimenta visivamente qualcosa che potrebbe essere vicino e aderente ai canoni di normalità estetica, ma al contrario si carica di una valenza destabilizzante. 

Frammenti di cinema sperimentale austriaco

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2551.01 è un manifesto emblematico e topico del cinema sperimentale contemporaneo: con le sue inquadrature destabilizzate, il dimorfismo imperante in ogni immagine, il montaggio alternato costruito per analogie e simbolismi, il colore e lo spostamento di focus della macchina da presa. La scelta di non utilizzare la componente vocale accentua maggiormente l’enfasi sull’immagine e sulla comprensione corporea della narrazione, attraverso un meccanismo spettatoriale di simulazione incarnata applicata all’evento performativo.

Tutto si muove e si interpone entro una convergenza di suoni extradiegetici, virtuosismi tecnici ed estetici e narrazione obliqua che riesce ad inglobare tali caratteristiche in una dimensione sovrastorica della condizione umana degli emarginati, esclusi dal pathos espressivo attraverso delle maschere finzionali, ma al contempo simboliche della società. Ma i gesti, le frenetiche esagerazioni fisiche e performative dei soggetti sulla scena cristallizzano l’esasperazione delle forme, delle metafore e dei modelli sociali che Pfaffenbichler vuole mostrare intervenendo materialmente sulla trasposizione simbolica e narrativa.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.7