Raised by Wolves – Una nuova umanità: recensione della serie di Ridley Scott

Abbiamo visto in anteprima i primi sei episodi di Raised by Wolves - Una nuova umanità, la serie TV prodotta da Ridley Scott in grado di stimolare riflessioni e domande.

C’è sperimentazione; c’è tutta la tradizione del genere fantascientifico e i dovuti riferimenti alle opere più apprezzate; ci sono tutti gli interrogativi sulla vita, sulla maternità, sull’esistenza dell’anima e ci sono anche e senza dubbio, in Raised by Wolves – Una nuova umanità, due grandi nomi a fare da traino e incuriosire gli spettatori, ovvero quello di Ridley Scott (che ha prodotto la serie e diretto i primi due episodi) e quello di Aaron Guzikowski (sceneggiatore e showrunner, noto ai più per aver lavorato alla sceneggiatura di Prisoners, il film di Denis Villeneuve ).

Composta da dieci episodi e in uscita in Italia su Sky Atlantic e sul servizio streaming NOW TV a partire dall’8 febbraio 2021, Raised by Wolves segna il debutto televisivo del regista di Alien, Blade Runner, Prometheus (solo per citare alcuni dei suoi capolavori), portandoci al cospetto di un pianeta desolato, in un futuro distopico in cui la Terra è stata distrutta e il destino della razza umana è affidato a due androidi: Madre (Amanda Collin) e Padre (Abubakar Salim) che, come due moderni Adamo ed Eva, sono chiamati a portare a termine la loro missione di dare origine a una colonia umana sul pianeta Kepler-22b.

Madre e Padre come due moderni Adamo ed Eva in Raised by Wolves – Una nuova umanità

Raised by Wolves - Una nuova umanità cinematographe.it

Lo spettatore resta subito ammaliato dalla desertica location e da quella preistorica modernità in cui si respira il profumo della creazione, artificiosa quanto artificiale. Lo sviluppo degli embrioni e la loro venuta al mondo allo scadere dei nove mesi imbeve fin da subito la visione di un’umanità astratta: c’è il ricamo silenzioso di una razionalità giusta, di un evolversi naturale ma dovuto, una genitorialità che prima di essere voluta è imposta e di un esistere che, nella sua infinità, serba sempre la minaccia della finitudine.
A reggere il peso della bellezza, prima ancora delle impeccabili inquadrature o delle sfumature pastellate e polverose che sanno di solitudine e deriva, sono le interpretazioni dei due protagonisti: la loro espressività intrappolata in una gabbia di tessuto sintetico e metallo rende onore a tutta la filmografia fantascientifica (basti solo pensare a Blade Runner o alla saga di Alien) e nella Madre interpretata da Amanda Collin, più di ogni altro personaggio, si incarna tutta la spiritualità scottiana inerente la figura femminile in generale e materna in particolare. Il corpo di Madre è allora mezzo di creazione e distruzione, è l’esplodere di un cambiamento controllato la cui estetica la pone anche visivamente al centro della narrazione.

Completano la catena dell’interpretazione un’altra coppia di genitori: stavolta umani ma anche loro “non autentici”. Il soldato ateo che prende il posto di un generale mitraico (Marcus/Caleb, interpretato da Travis Fimmel) e la compagna Sue/Mary (interpretata da Niamh Algar), fanno da contraltare a Madre e Padre in un giocoforza interessante che dà modo di scandagliare a fondo il concetto stesso della responsabilità verso i figli e verso le nuove generazioni. Ciò che entrambi vogliono è infatti la cura e la protezione dei bambini che, in una società esigua e alla deriva, appaiono effettivamente come il bene più prezioso. È nelle menti dei piccoli interpreti, a cui – eccezion fatta forse per Campion – non viene poi dato molto rilievo, che si scatena la battaglia filosofica e lo scambio di opinioni. Da una parte c’è il piccolo Campion, allevato come un ateo pacifista ma che inizia a sviluppare interesse verso la religione (intesa, da quel che vediamo, come una speranza che le cose continuino anche dopo la morte fisica), dall’altra ci sono invece gli adepti di Sol, ragazzi e bambini (interpretati da Jordan Loughran, Felix Jamieson, Ethan Hazzard, Aasiya Shah) educati secondo gli insegnamenti mitraici ma che adagio iniziano a capire il buono dei loro nuovi genitori adottivi e ad apprezzarlo.

L’impeccabile equilibrio tra filosofia e distopia nella serie HBO prodotta da Ridley Scott

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L’astuzia di Aaron Guzikowski in Raised by Wolves – Una nuova umanità è quella di servirci su un piatto d’argento una misticanza in cui il sapore della distopia viene smorzato da interrogativi sempre attuali, innescati agevolmente da una diatriba tra atei e credenti, quest’ultimi rappresentati dai Mitraici: un manipolo di sopravvissuti che venera Sol, indossando abiti che ricordano un po’ i templari, un po’ i costumi di Guerre Stellari e predicando una religione che crede nell’aldilà e nelle scritture, ma che non si priva di combattere (senza sporcarsi le mani), abusare dei minori, dimenticare i più piccoli in nome di un dio giusto e ignoto. È la lotta, come sempre, a fungere da motore dell’intera narrazione: atei contro mitraici, umani contro androidi, androidi contro misteriose creature.

E l’estratto di ciò che è sopravvissuto alla guerra terrena è solo un nuovo terreno in cui consumare l’involuzione umana: un prosciugare repentino e inesauribile di risorse e insegnamenti per far fronte sempre e solo a nuovi conflitti, in un loop eterno di tentazioni, trappole e inganni in cui l’umanità si infanga sempre di violenza e fallimento. Le regole che i genitori androidi cercano di impartire alla prole vengono messe in subbuglio da istinti prettamente umani: l’ira, la gelosia, la violenza esplodono con veemenza nei momenti cruciali in cui c’è il confronto. Basta una parola di troppo o un’idea differente per scatenare il malcontento, per tramutare l’idealizzato paradiso in un inferno. Così, come nella maggior parte della filmografia fantascientifica di Ridley Scott, i veri mostri sono sempre e solo gli umani.

Gli stessi che gli androidi in qualche modo venerano e a cui dedicano la loro missione, in uno slancio di generosità, protezione e sacrificio che fa vacillare, mettendo in pericolo tutte le convinzione (e convenzioni) sul concetto stesso di anima e “umanità”: se Padre è palesemente programmato per essere giocoso, utile e affidabile, è in Madre che queste qualità evolvono in un’istinto che trascende la meccanica. Ci sono atteggiamenti e grida di dolore che attanagliano il cuore di chi guarda verso lo schermo rintracciando in quella reazione alla perdita suoni animaleschi e selvaggi, suoni reali e atavici, come d’altro canto sono tutti quelli che attraversano la serie TV, in una soundtrack (composta da Marc Streitenfeld e Ben Frost) che divampa con minimalismo, affilata come una lama, attraversa la carne del tempo incuneandosi nella testa come un martello di ossa e fango, rievocando il canto di un tempo che è stato, eppure deve ancora essere.

Raised by Wolves – Una nuova umanità e il sogno di una società pacifica e tecnocratica

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La fotografia, opera del direttore Dariusz Wolski e di Ross Emery ed Erik Messerschmidt, imbottisce gli occhi con quadri in cui affollano navicelle spaziali, campi di grano circolari, abitazioni in pietra simili a nuraghe ed enormi stanze simili a iglù di gomma e ancora tutine attillate e abiti sbrindellati e semplici, che sembrano essere usciti da un racconto biblico.
E tuttavia non si può dire che le sacre scritture non incidano nella narrazione, in cui si intercetta perennemente l’anelito della Creazione e la ricerca di un prescelto. È forse Campion (interpretato da Winta McGrath), l’unico sopravvissuto tra i bambini della colonia? O si trova forse tra i figli dei mitraici “rapiti” da Madre?

C’è una ricercatezza, in Raised by Wolves – Una nuova umanità, che non può che lasciar cadere lo spettatore in un vortice di riferimenti e metafore, talvolta sintagmi di paludosa  inadeguatezza, talaltra fili tesi, colmi di inquietudine e domande antiche. Chi siamo? Da dove veniamo? E qual è il nostro scopo? “L’umanità deve credere a se stessa”, insegna Madre alla sua prole e lo dice con una fiducia negli esseri umani che non trasuda ateismo bensì venerazione in un corpo, in una mente e in un’anima tangibili, perfettamente in grado di aspirare al bene tralasciando il male; solennemente possibilitati a creare un mondo e una civiltà tecnocratica e pacifista.

Esaminando questi primi episodi della serie resta sul fondo la sensazione di essere stati arpionati da un sogno già fatto ma che pur appare sempre differente. Una visione che assurge a testamento di un tempo non poi così futuro, stimolando positivamente interrogativi e pensieri e rintanandoli in un cunicolo buio in cui, accendendo in prospettiva la luce della fantasia, si scorge l’ombra di una creatura televisiva che, nel contesto attuale, è ossigeno puro.

Raised by Wolves

Il pubblico amante del genere sci-fi è senza dubbio smaliziato da tutte le tematiche esaminate in Raised by Wolves – Una nuova umanità: ha già letto e visto storie di androidi e pianeti vergini da conquistare; è avvezzo alle lotte di potere e agli scenari post apocalittici. Cosa potrebbe trovare di innovativo nella serie HBO? Si capta un’evoluzione del futuro che è la consecutio di tutte le opere già immagazzinate. Di davvero mai visto forse  non c’è nulla, ma è la combinazione di suoni, regia, sceneggiatura, interpretazione e scenografia a donarci un bouquet raffinato e intrigante il cui profumo sa attirarci e conquistarci.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.5