L’amico fedele: recensione del film di Scott McGehee e David Siegel

“Casa tua puzza di cane, osserva qualcuno che viene a trovarmi. Dico che provvederò. Cosa che faccio non invitando più quella persona a casa mia.”

Un modello di cinema elegante e vecchio stile, quello che ritroviamo in L’amico fedele, il film di Scott McGehee e David Siegel che riflette sul tema universale della perdita attraverso l’elemento insopprimibile della scrittura, dell’amicizia e, più in generale, della parola. Con un’ottima prova di Naomi Watts, in sala dal 5 giugno 2025, distribuito da Universal Pictures.
Molto cinema recente, sull’onda lunga di una letteratura che da sempre, e inevitabilmente, si interroga sul tema, ha preso a indagare non più la fase dell’addio – cioè quando qualcuno o qualcosa se ne va, allontanandosi dalle nostre vite senza più farvi ritorno – bensì quella del dopo. A tal proposito, è consigliabile recuperare un racconto inspiegabilmente dimenticato di Stephen King, intitolato Le cose che si sono lasciati indietro. Titolo che riassume perfettamente ciò di cui stiamo parlando: gli oggetti, e ancora le parole – pronunciate e non – e, nel caso de L’amico fedele (The Friend) di Scott McGehee e David Siegel, gli scritti. Quelli pubblicati, che, al pari delle pagine rimaste in sospeso, ci raccontano ciò che la vita non è stata capace di svelarci, a partire dal dolore e dagli amori proibiti, traditi, o ancora mai realmente vissuti da coloro che, prima del tempo, hanno scelto – o altrimenti dovuto – lasciarci.

Chi resta, chi se ne va

L’amico fedele: recensione del film di Scott McGehee e David Siegel

Cos’è che sopravvive all’assenza? Com’è possibile che, delle nostre domande, nemmeno una possa mai trovare una risposta adeguata, e così il conforto che disperatamente inseguiremo, senza mai rintracciarlo altrove se non nella nostra memoria?
Iris (Naomi Watts), scrittrice ormai dedita all’insegnamento, è proprio con questo fardello che si ritrova a sopravvivere, appena dopo l’inatteso suicidio di William (Bill Murray), amico di una vita e mentore. Ciò che resta di lui, però, non ha a che fare esclusivamente con la morte – gli scritti e le letture ormai lasciate in sospeso – bensì con l’amore e, ancora una volta, la vita. È a Iris, infatti, che spetta la cura di Apollo, l’enorme alano misteriosamente ritrovato da William in un giorno di corsa solitaria tra le strade e i parchi di New York.
La strana coppia di Parole d’amore, Quel che sapeva Maisie e Montana Story torna dietro la macchina da presa per un cinema vecchio stile, adattando fedelmente l’omonimo romanzo dallo straordinario successo – vincitore del National Book Award e tra i migliori 100 libri del XXI secolo per il New York Times – di Sigrid Nunez, L’amico fedele. Il film di McGehee e Siegel, forte di un impianto letterario sospeso tra flusso di coscienza, diaristica e ironico resoconto d’una mirata seduta di terapia circa l’elaborazione della perdita, raggiunge efficacemente il fulcro della questione, senza mai perdersi, né tantomeno snaturarsi.
Se è vero, infatti, che moltissimo cinema centrato sul complesso e insostituibile legame tra cane e umano sembra essersi adagiato sempre più sulle ormai solite strutture del dramma commovente – o, ancor peggio, trappola a cliché – all’inseguimento della lacrima facile e spudorata per spettatori che, sprofondati sulle poltrone, godono colpevolmente di un’esperienza sospesa tra sguardo morboso e attesa catartica, il film di McGehee e Siegel se ne distanzia immediatamente.

“Casa tua puzza di cane, osserva qualcuno che viene a trovarmi. Dico che provvederò. Cosa che faccio non invitando più quella persona a casa mia.”

L’amico fedele: valutazione e conclusione

Come detto, non appartiene al dramma la spinta che anima l’esperienza goffa e, in definitiva, salvifica di Iris. Lo dimostra la prova, mai realmente dolorosa, di Watts: pur sempre ironica, per quanto efficacemente in cammino tra gli spazi cupi, silenziosi e solitari di chi, all’amore ed esperienza certamente complessa d’un suicida, sopravvive come meglio può, nonostante le insicurezze e la dolorosa perdita degli equilibri emotivi – restando a galla, insomma.
Eppure, a coloro che restano, il tempo ancora permette di ristabilire efficacemente quegli equilibri perduti. Da qui l’imprevedibilità di un’esperienza tanto nuova quanto sconvolgente, come quella di una vita – o almeno di ciò che ne resta – da trascorrere accanto a un alano apparentemente spaventoso, eppure docile e tristemente rassegnato. La spinta non è mai del dramma, bensì della commedia. Quella dolceamara, rigorosamente caustica e fortemente radicata nella sfera emotiva del reale, che avrebbe senz’altro messo d’accordo Nora Ephron, Karen Blixen e David Foster Wallace: tre autori estremamente differenti tra loro, che rivivono appieno tra le pagine di Sigrid Nunez e perfino tra le inquadrature e la scrittura sottile di McGehee e Siegel.
“Avevo dimenticato quanto fosse doloroso ricordare, scrive una delle mie studentesse. E ha solo diciotto anni”.

Ci accodiamo all’amara e intima considerazione di Nunez/Iris. Soprattutto se sopravvissuti. Soprattutto se protagonisti – per nostra fortuna, o ancor meglio privilegio – d’un legame immortale e salvifico, come quello che unisce un uomo e un cane, senza smarrirsi mai. Nonostante il dolore della fine, i silenzi che restano e tutte quelle azioni che ancora non smetti di compiere, guardandoti attorno tra gli spazi della casa e della città, per poi tornare alla vita.
Un cinema gentile ed elegante, quello di Scott McGehee e David Siegel, che restituisce un grande peso alla parola, alla scrittura e all’osservazione sincera di un dolore complesso, la cui cura ancora non ci è dato conoscere.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.8