Watchmen: la serie HBO e l’importanza di chiamarsi Lindelof

Lo splendore del Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, la passione e la creatività di Damon Lindelof nella serie HBO. Un'analisi tra fumetto e serie TV.

È il 1985, Alan Moore e Dave Gibbons sono chiusi in casa da 8 ore, intenti a creare lo scenario e i personaggi che segneranno la loro prima collaborazione. Qualche settimana prima Dick Giordano ha dato loro via libera. I due uomini sono ancora negli uffici della casa editrice in attesa con il cuore in gola. Sono passate 10 ore e c’è ancora lavoro da fare, tra venti minuti lo capiranno e ordineranno cinese per cena.
È il 2007, Damon Lindelof firma questa frase sul retro di una delle riedizioni di Watchmen: “La più grande opera di narrativa popolare mai prodotta“. Tra circa 10 anni accetta dalla HBO l’incarico di scrivere una serie tratta dall’opera a fumetti, dopo aver rifiutato due volte la proposta, nel 2012 e nel 2015.

Watchmen, cinematographe.it

È il 20 ottobre 2019 e la creatura di Lindelof debutta con il primo episodio. 17 mesi prima l’autore americano pubblica su Instagram una lettera aperta a tutti i fan della serie a fumetti, mettendo le mani avanti e giustificando preventivamente il lavoro che avrebbe fatto. È ancora lì mentre è incerto se condividere o meno quei 5 screen. Tra 3 mesi la HBO annuncia ufficialmente la serie. L’annuncio è già lì tra tre mesi. Due. Uno.

È il 15 dicembre 2019 quando esce See How They Fly, l’ultima puntata della prima stagione, tra 1 ora mi metto a pensare se sono in grado di scrivere qualcosa al riguardo. Sono già lì che me la rivedo con i fumetti sotto mano, tra un giorno avrò un’idea in testa. Non c’è un tempo in cui capisco se sia buona.

Watchmen e Moore

Watchmen, cinematographe.it

Alan Moore ha sempre disconosciuto qualsiasi opera derivante dai suoi lavori. Non ha mai voluto che il suo nome comparisse o anche solo fosse citato quando si parlava di tali argomenti. Non ha fatto un’eccezione neanche in questo caso, in cui forse qualcosa di buono avrebbe trovato. Gibbons, evidentemente, lo ha fatto.

“È il 13 gennaio 20…” No, la smetto scusate.

Vedendo il Watchmen di Zack Snyder, che è riuscito nell’impresa di riportare sullo schermo una copia 1:1 delle immagini della carta stampata dimenticandosi a casa tutta la parte contenutistica; oppure V per Vendetta o From Hell (La storia vera di Jack Lo Squartatore) o, per carità, La leggenda degli uomini straordinari, il parere di Moore non è solo comprensibile, ma è per qualche verso addirittura auspicabile da parte di un autore geloso del suo lavoro. Allo stesso modo non si può però dimenticare come lo stesso Moore, sia nell’ultimo dei titoli soprascritti che nelle sue storie negli universi DC di Batman, Superman e Swamp Thing, non ci abbia pensato due volte ad alterare a proprio piacimento personaggi, logiche narrative e trame scritte e concepite da altri.

Watchmen, cinematographe.it

Ai posteri le questioni di legittimità vera o presunta.

Tornando a noi, pensate che magari Lindelof sarebbe entrato nelle grazie del britannico barbuto per via del rispetto riservato alla sua opera? Forse, forse no, forse a questo Moore neanche avrebbe fatto caso, forse invece avrebbe apprezzato il lavoro dell’autore di Lost e The Leftovers (e Prometheus, ma vabbé) per quel margine di manovra che si è riuscito a creare in modo da dar vita a una storia nuova. Storia nata dalla rielaborazione arguta (molto) e creativa (molto di più) della notevole eredità lasciata dai contenuti pregressi con cui ha avuto a che fare.

Si, perché il Watchmen di Lindelof è prima di tutto un’opera con una dignità autonoma, propria e, paradossalmente, lo è a prescindere anche dal lavoro di Moore, e un sequel se non all’altezza, quanto meno credibile.

Moore e Lindelof

Watchmen, cinematographe.it

Togliamoci subito il dubbio: Damon Lindelof ha fatto i compiti a casa. I nove episodi del suo Watchmen non sono solo strapieni di riferimenti, alcuni veramente delicatissimi (me ne concedo uno: il nome di una vigilante collega di Angela Abar è Jenny il Pirata. I Racconti del Vascello Nero, il fumetto nel fumetto all’interno dell’opera di Moore, allude al brano Die Seeräuber-Jenny, traduzione: “Jenny dei pirati”), ma riprendono con sapienza alcuni meccanismi narrativi del fumetto. A parte la struttura quasi identica, c’è la narrazione della storia attraverso sottotrame svincolate, flashback, inserti (la serie televisiva su Giustizia Mascherata), l’uso della tecnica del retcon (puntata 6) oppure l’uso ossessivo del simbolismo.

Si parlava di eredità del lavoro di Moore, in primis quella legata ai suoi personaggi, qui presenti più o meno tutti, con o senza il loro volto. Ozy e Doc sono rappresentati egregiamente: uno ancora schiavo del suo ego, in attesa di un riconoscimento per aver salvato l’umanità; l’altro di nuovo alle prese con un amore terrestre dopo essere stato in giro per la galassia a creare la vita (promessa mantenuta) ed entrambi protagonisti di uno scambio di posizioni uomo-Dio che rappresenta perfettamente il binomio che li ha da sempre legati. Ci sta la Laurie Blake (Spettro di Seta II) ancora innamorata di Manhattan e riscoperta figlia del Comico, cinica, distaccata e cacciatrice di maschere. Allo stesso modo funziona benissimo il Rorschach frammentato tra le idee razziste del Settimo Reggimento, figlie della sua visione fascista e conservatrice del mondo e del suo linguaggio non proprio democratico per esprimerlo, la fisicità di Specchio e la camera per smascherare i razzisti da lui stesso ispirati, evoluzione dei movimenti della macchie sulla sua “faccia”. A pezzi Gufo Notturno (I e II) tra riprese di Sotto la Maschera e i congegni vari figli di Archie.

Andando oltre, è l’elaborazione delle tematiche la forza della storia scritta da Lindelof, il quale riesce a individuare i terreni adatti a far germogliare i semi del potenziale utile alla storia che ha in mente.

Lindelof e Watchmen

Watchmen, cinematographe.it

Watchmen di Moore si basa sulla decostruzione dell’immagine di eroe mascherato tradizionale, facendo leva sull’amore che la società americana nutre da sempre verso queste figure.

Partendo dalla massima latina di Giovenale “Quis custodiet ipsos custodes?” (un più semplice “Chi controlla i controllori?“), Moore comincia a creare il suo immaginario di iperrealismo in cui inserire gli eroi in maschera. Segue la sua via Lindelof, il quale amplia questo concetto con l’introduzione di una guerra tra maschere, in cui, di fatto, ognuno è libero di andare oltre lo status quo regolato dalle leggi convenzionali. Narrativamente parlando questo viene tradotto con un decreto Keene II, se vogliamo (ad opera, tra l’altro, del senatore Keene jr.). Da qui alla traduzione dell’idea americana idilliaca del vigilante in una fortemente oscura, in cui la sessualizzazione distorta e il fanatismo razziale regolano le sue azioni, il passo è breve.

La costituzione del KKK in America ha delle discendenze dirette con gli egomaniaci vigilanti di frontiera delusi dall’esito della guerra di secessione, ecco perché la strage di Tulsa, ecco perché il tema del razzismo, ecco perché Lindelof con Watchmen fa una genialata.

Watchmen, cinematographe.it

Trovato il nucleo centrale della storia che vuole raccontare, il regista newyorkese comincia a tessere la sua ragnatela andando ben volentieri incontro alle prove che gli si parano all’orizzonte. C’è quella della scrittura di Manhattan, la quinta essenza del lavoro di Moore, della sua visione del tempo e dei quesiti di moralità intorno all’utilizzo dell’onnipotenza. Si concede anche qualcosa dal punto di vista visivo Lindelof: in This Extraordinary Being la messa in scena diventa un elemento di scrittura e gli permette di sfruttare (di nuovo) una zona fertile della narrativa del fumetto, nello specifico i misteri intorno all’identità di Giustizia Mascherata.

Si chiude con il paradosso temporale: un orologio le cui lancette si muovono in una direzione sbagliata, che battono i secondi verso un obiettivo, una fine che non è importante, che non arriva mai, che non può arrivare, che è fuori contesto. Che si spegne su un semplice quesito: cosa è nato prima, la gallina o l’uovo?