Carmen Di Marzo su Il cuore inverso: “Questo monologo ha intercettato un mio desiderio profondo”
Intervista all'attrice, in scena al Teatro Vittoria il 28 e 29 ottobre, con uno spettacolo che restituisce voce e dignità alle staffette partigiane, dedicato alla memoria di Iole Mancini
La memoria, la libertà, l’emergere di una forza femminea celata quando indispensabile, la voce dell’arte come atto civile, il legame profondo tra teatro e vita e la necessità di raccontare ciò che non va dimenticato. In queste coordinate si muove Carmen Di Marzo, attrice e cantante professionista dalla formazione poliedrica e dal percorso artistico intenso. Divisa da quasi vent’anni tra teatro, cinema e televisione, alterna prosa e musical, drammaturgia classica e contemporanea. Negli ultimi anni ha conquistato pubblico e critica con i monologhi Rosy D’Altavilla – L’amore oltre il tempo e 14 wo(man), entrambi diretti da Paolo Vanacore, con le musiche di Alessandro Panatteri.
Sul grande schermo ha lavorato in film come Viva l’Italia e Confusi e felici di Massimiliano Bruno, Arrivano i prof di Ivan Silvestrini e nel docufilm Ologramma di Francesco Zarzana, mentre in tv è apparsa in I Bastardi di Pizzofalcone 3, Il Commissario Ricciardi 2, Piedone – Uno sbirro a Napoli e Mare Fuori 4.
In occasione delle repliche romane – che avranno poi seguito in diverse città italiane – del nuovo spettacolo di cui è protagonista, Il cuore inverso, in scena al Teatro Vittoria il 28 e 29 ottobre e dedicato alla memoria di Iole Mancini, l’abbiamo incontrata per parlare di questo monologo scritto da Nando Vitali e diretto, ancora una volta, da Paolo Vanacore: un atto d’amore e resistenza che restituisce voce alle donne partigiane e invita a non smettere mai di scegliere da che parte stare.
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Carmen Di Marzo, la “sua” Lauretta e Iole Mancini

Carmen, partiamo da Il cuore inverso: cosa puoi anticiparci di questo monologo e da quale esigenza nasce?
“‘Il cuore inverso’ è uno spettacolo che ha debuttato lo scorso anno a Napoli. Il testo è di Nando Vitali, autore napoletano di grande sensibilità, che – senza saperlo – ha intercettato un mio desiderio profondo: da tempo volevo portare in scena una donna partigiana, ma non trovavo mai il testo giusto. Il tema della Resistenza è stato affrontato molto, anche al cinema, e ricercavo un modo originale per raccontarlo.
Quando Nando mi ha proposto il testo, attraverso Paolo Vanacore – che è il mio regista – ho capito subito che quella era la strada. Il testo mette al centro la figura femminile come energia vitale e reattiva contro la barbarie e la discriminazione. Senza le donne, e in particolare senza le staffette partigiane, la Resistenza non sarebbe stata la stessa.
Con il nostro spettacolo rendiamo inoltre omaggio a Iole Mancini, ultima staffetta partigiana, scomparsa lo scorso dicembre. Non è un testo su di lei, ma la sua storia mi ha profondamente ispirata: molte delle sue parole e dei suoi gesti vivono dentro lo spettacolo.“
Quanto hai sentito tuo questo ruolo e quali difficoltà hai incontrato nell’interpretare Lauretta, la protagonista?
“Mi sono documentata molto sul periodo, anche se conoscevo già la storia della Resistenza. Non sapevo però, nello specifico, quale fosse la quotidianità delle staffette. Lauretta è un personaggio complesso: nel testo si parla anche di maternità e di altre tematiche contemporanee. È una donna che, pur sapendo di essere incinta, continua a rischiare la vita per portare avanti la sua missione.
Questa è stata la difficoltà più grande: accettare un coraggio così radicale, che mette la vita collettiva sopra quella individuale. Non so se io, al suo posto, avrei avuto la stessa forza. Ho dovuto spogliarmi di certe resistenze interiori, ma il teatro è un allenamento continuo e, piano piano, tutto si è sciolto.“
Hai citato Iole Mancini. Che ruolo ha avuto nella preparazione del personaggio?
“La conoscevo solo di nome. Dopo la sua morte ho approfondito la sua storia e sono rimasta colpita da un dettaglio: in alcune interviste racconta di non aver mai tradito nessuno, nemmeno sotto tortura. Per lei la parola “compagni” aveva un valore morale altissimo.
Nel mio spettacolo, invece, Lauretta a un certo punto cede alla paura per la figlia. Quella distanza tra la realtà di Iole e la mia protagonista mi ha commossa: la persona supera il personaggio. Vedere una donna anziana raccontare con lucidità ciò che ha fatto davvero mi ha fatto capire la grandezza di quelle donne. Erano pura avanguardia.“
Cosa ci puoi dire, invece, della longeva collaborazione con il regista Paolo Vanacore e con il compositore Alessandro Panatteri?
“Siamo una vera famiglia teatrale: lavoriamo insieme dal 2016. Con Paolo c’è un’intesa profonda, ci capiamo subito. Per esempio, la sua idea registica di inserire in scena un sipario di catene – che evocano la bicicletta di Duchamp e al tempo stesso i vincoli interiori e storici del fascismo – è stata illuminante.
Con il maestro Panatteri che, tra gli altri, ha lavorato anche con Morricone e Piovani, c’è un dialogo continuo. Le sue musiche non sottolineano, ma suggeriscono: sono come un personaggio invisibile. Per me la musica non deve accompagnare l’attore, deve rivelare ciò che non dice.“

Carmen Di Marzo tra televisione, cinema teatro: “Binari diversi ma paralleli”
Nel tuo percorso hai sempre alternato teatro, cinema e televisione. Come convivono questi linguaggi?
“Corrono su binari diversi ma paralleli. Il teatro mi ha insegnato il rigore, lo studio, la disciplina. È un luogo sacro: sali sul palco e non puoi sbagliare.
Il cinema e la televisione, invece, mi hanno insegnato la concentrazione. Sul set ci sono tante persone, ognuna con la propria funzione, e devi riuscire a restare centrato. Sono linguaggi diversi ma si compenetrano: entrambi arricchiscono l’attore e lo rendono completo.“
Ci sono stati riferimenti cinematografici o teatrali che ti hanno ispirata nella costruzione del monologo?
“Il mio teatro è sempre contaminato dal cinema che amo. Quando vedo un film capace di emozionarmi senza sensazionalismi, lo porto dentro al mio lavoro. Un esempio è ‘La zona d’interesse’, il più bel film sull’Olocausto che io abbia mai visto. Lì ho ritrovato l’essenzialità che cerco anche in scena.
Non mi ispiro a monologhi precisi, ma ai temi: quando un tema mi tocca, sento che deve diventare teatro. Sul piano tecnico, mi rifaccio sempre ai metodi di Stanislavskij e Strasberg: sono i miei punti di riferimento. Il monologo richiede una struttura solida, devi tenere il pubblico con te per tutto il tempo, senza cedimenti.“
Nello spettacolo si parla di coraggio e di coscienza collettiva. Se ti chiedessi chi sono le “staffette” di oggi nel mondo dell’arte?
“Non serve fare nomi altisonanti. Per me sono “staffette” tutti coloro che raccontano, attraverso l’arte, le discriminazioni e le ingiustizie, chi denuncia la barbarie in qualsiasi forma.
Che siano uomini o donne, non importa: il concetto di “quote rosa” mi lascia perplessa, perché accentua la divisione. Credo nell’arte come luogo di unione.
E poi ci sono anche i giornalisti coraggiosi, come Sigfrido Ranucci di Report: indipendentemente dalle opinioni, rappresentano un simbolo di libertà e responsabilità civile.“
Dove vedremo prossimamente Il cuore inverso e quali altri progetti ti aspettano?
“Dopo Roma lo spettacolo sarà a Castel Gandolfo, poi di nuovo a Napoli e nella provincia laziale. Stiamo lavorando anche per portarlo a Milano nella prossima stagione.
Sul fronte televisivo, entro la fine dell’anno uscirà su Rai 1 ‘Roberta Valente, notaio in Sorrento’, serie diretta da Vincenzo Pirozzi.
Sul palcoscenico debutterò a febbraio con ‘Dobermann’, testo che ho scritto e di cui curo la regia, sul tema della violenza sessuale. Sarà interpretato da Antonella Vallitutti. Inoltre, tornerò in tournée in primavera con ‘Le gratitudini’ diretto da Paolo Triestino, uno spettacolo a cui tengo molto.“
Non hai pensato di interpretare tu stessa Dobermann?
“No. Quando scrivo, non recito. Non amo la formula “scritto, diretto e interpretato”, la trovo autoreferenziale. Se sono in scena, ho bisogno di qualcuno che mi guardi da fuori; se dirigo, voglio raccontare attraverso un’altra attrice. ‘Dobermann’ è una storia che avevo bisogno di osservare dall’esterno, e Antonella l’ha abbracciata con grande forza. È bello quando un progetto trova la sua voce naturale.“
