The Life of Chuck: recensione del film di Mike Flanagan
Mike Flanagan adatta Stephen King, ma non è un horror. The Life of Chuck, con potagonista Tom Hiddleston, è un dramma fantastico sulle cose che rendono la vita degna di essere vissuta. Dal 18 settembre 2025 in sala.
I nomi, messi uno accanto all’altro, possono portare fuori strada. Se la notizia è, Mike Flanagan incontra Stephen King; sarebbe a dire, se una firma autorevole del moderno horror cinematografico (Doctor Sleep) e seriale (La caduta della casa degli Usher) adatta il racconto del maestro del genere, uno pensa: eccone un altro (horror). E invece no. The Life of Chuck, in sala in Italia il 18 settembre 2025 per Eagle Pictures, ha in sé elementi che ne consentono la collocazione nel perimetro del cinema di genere – quasi fantascientifico, in parte, e con un senso di inquietudine affine all’horror – ma è anche qualcosa di decisamente diverso, enfasi sul decisamente. Ha un super cast che comprende Tom Hiddleston, Chiwetel Ejiofor, Karen Gillan, Mark Hamill, Mia Sara e Jacob Tremblay ed è un dramma con venature fantastiche sulla vita, la morte, l’amore, la danza e un mucchio di altre cose, grandi e piccole, che rendono la vita degna di essere vissuta. Dipende tutto dall’equilibrio sottile di sentimento e sentimentalismo. Per funzionare, il film deve stare alla larga dal secondo e aver cura del primo.
The Life of Chuck: la totalità della vita, in tre atti

Chi diavolo è Charles Krantz (Tom Hiddleston) detto Chuck? E perché le strade di una città in America sono inondate di cartelloni pubblicitari che ne celebrano la vita, ringraziandolo per 39 splendidi anni? Il mistero al centro di The Life of Chuck non si presta a semplificazioni. Né valgono, a risolverne la complicatezza, svelamenti inopportuni. Tradotto, niente spoiler, che il rischio è di scottarsi. Poco si può dire del film se non che la struttura, che ricalca in maniera abbastanza fedele quella del raccontino omonimo di Stephen King contenuto nella raccolta del 2020 “Se scorre il sangue”, è tripartita.
Tre atti, non necessariamente in ordine cronologico – si va a ritroso – con sfondi e personaggi che cambiano e l’ovvio denominatore comune: Chuck. L’atto numero III, il primo a essere presentato, è la storia di Marty (Chiwetel Ejiofor) e Felicia (Karen Gillan). Lui è insegnante, lei infermiera, profondamente demoralizzata perché le cose vanno male. Internet è andata, la tv pure, la terra si apre e inghiotte tutto quello che trova. C’è una strana, rassegnata aria da fine del mondo e per le strade della città – l’enigma cattura l’attenzione di Marty e Felicia distogliendoli dal pensiero della fine – spuntano come funghi i bizzarri, enigmatici, cartelloni.
Gli altri due atti si concentrano rispettivamente su un giorno nella vita del protagonista (atto II) – Chuck balla al ritmo della batteria di un’artista di strada (Taylor Gordon) interrompendo la grigia routine quotidiana e coinvolgendo una sconosciuta (Annalise Basso) in una coreografia di esuberante, inaspettata vitalità – e sull’infanzia (atto I); da giovane lo interpreta Jacob Tremblay, in compagnia del nonno (Mark Hamill) e della nonna (Mia Sara). Dunque: Mike Flanagan adatta Stephen King e gira The Life of Chuck per spiegare la condizione umana partendo dal più elementare dei contrasti, sarebbe a dire vita vs. morte. L’effimera natura delle cose è il leitmotiv che condiziona ogni esperienza, scelta o frammento di vita dei personaggi; l’attesa spasmodica dell’inevitabile, della fine, è il cemento emotivo dei tre episodi, presi singolarmente e in prospettiva d’insieme. La morte è a volte un problema generalizzato, altrove una faccenda strettamente privata; in entrambi i casi, è l’unità di misura che tutto definisce, circoscrive, carica di significato. The Life of Chuck prova a catturare la totalità della vita isolando una galleria di momenti emblematici. Per dimostrare, anche sull’orlo dell’abisso, che merita di essere vissuta.
Un celebre poeta, tre film in uno, e una morale della favola ambigua e chiara allo stesso tempo

Sono tre episodi, tre atti, va bene anche tre frammenti, e forse è proprio l’ultima la definizione più corretta. Ogni atto è un film in potenza, considerata la vastità delle implicazioni – sentimentali, narrative, di genere – che racchiude e che solo a tratti condivide con il pubblico. È la natura multiforme e sfaccettata dell’esistenza, la sterminata complessità interiore dell’essere umano, l’ambizioso orizzonte di The Life of Chuck. Il film guarda esplicitamente al padre della poesia americana, Walt Whitman, e al celeberrimo, “io contengo moltitudini”, citato senza troppi complimenti per spingere lo spettatore a guardare dalla parte giusta. Mike Flanagan, e dietro di lui Stephen King che firma anche lo script, sa che il rischio, a puntare in alto, è di non mantenersi all’altezza delle aspettative disperdendosi in un confuso groviglio di sterilità e inconcludenza tematica. Per questo cerca di bilanciare l’audacia dei propositi opponendo una doppia barriera alla vulnerabilità della storia.
Costruisce un film testardamente commerciale ed esaspera, piuttosto che smorzare, la frammentaria natura del racconto. Sono scampoli di vita, di Chuck, di Marty, Felicia e tutti gli altri, quelli che ci vengono offerti, non tutto il quadro. Solo brevi parentesi significative, significative nella loro semplicità quotidiana – l’ideologia sotterranea del film è l’esaltazione della vita qualunque – e che trasmettono la verità fondamentale del film – la vita è fatta di scelte giuste e sbagliate, merita di essere vissuta in pieno e celebrata – senza scendere troppo nei dettagli. La morale della favola si fa strada lungo quello che è stato giustamente definito un racconto di formazione a ritroso, ma solo a grandi linee. Testardamente ambiguo, The Life of Chuck riserva allo spettatore l’onere della prova circa la profondità del suo discorso.
La scelta è coraggiosa e ha le sue controindicazioni. La forza del film è di tenere dritta la barra e di non cedere al sentimentalismo, arrendendosi un po’ solo sull’atto finale (che, cronologicamente, è il primo). Non aiuta che ogni episodio sia un film intero non sviluppato. Il senso di incompiutezza, il tono allusivo, l’indeterminatezza, si lasciano dietro un retrogusto di leggera frustrazione, ma è la pecca inevitabile di un film a suo modo coraggioso che cerca l’equilibrio tra sentimento e sobrietà, tra fantastica deformazione della realtà e verità della condizione umana. Meglio, tra la vita riletta nella sua spiazzante complicata totalità e i milioni di frammenti, di attimi, di brevi momenti che la compongono. Nel raccontarci perché la vita meriti di essere vissuta, nell’aderire alla verità delle cose servendosi della deliberata falsificazione del cinema, The Life of Chuck cerca di catturare l’intero e la somma delle parti.
The Life of Chuck: valutazione e conclusione
Mike Flanagan non tradisce se stesso, né scorda che la sua resta sempre una vocazione horror. The Life of Chuck, senza rinnegare la generalizzazione “dramma fantastico”, ha qualcosa dell’horror camuffato nelle pieghe di un film “altro”. L’horror è nel senso di minaccia, esistenziale ma non solo, della morte nascosta nell’ombra. L’horror è un’eco lontana, la benzina che dà vigore alle emozioni e struttura la storia.
Non sempre a suo agio con l’ambiguità, frammentario al rischio di una certa confusione, The Life of Chuck è l’interessante tentativo del suo regista di uscire dalla comfort zone con un film diverso. Senza sconfessare il passato, in bilico tra il cinema fatto fino a ieri e il cinema di oggi e, chissà, anche di domani. Del cast, oltre all’intensità trattenuta, mai debordante, del sempre bravo Tom Hiddleston – notevolissimo ballerino, la sua esibizione è il cuore del film – c’è l’empatica rassegnazione di Chiwetel Ejiofor, cuore fermo e fragilità, e la capacità di Karen Gillan di restituirci l’interezza di Felicia nei pochi minuti di presenza in scena. In un certo senso, il personaggio rappresenta la sintesi più riuscita tra la totalità e la frammentarietà della vita che The Life of Chuck insegue tenacemente, senza catturare del tutto.
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