Cannes 2016 – La pazza gioia: intervista a Valentina Carnelutti

Ha uno sguardo dolce e sognante Valentina Carnelutti, dal 17 maggio al cinema con La pazza gioia di Paolo Virzì, uno dei tre film italiani (insieme a Fai bei sogni e Fiore) presenti a Cannes 2016 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Attrice, doppiatrice ma anche regista e sceneggiatrice, il talento di questa risorsa del cinema italiano spazia fra svariate dimensioni, grazie ad una preparazione sempre in movimento, che non smette di attingere da più fonti possibili esplorando il mondo. Noi di Cinematographe l’abbiamo incontrata a Cannes e abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola con lei: ecco cosa ci ha confidato a proposito della suo percorso verso la settima arte.

La tua è una preparazione poliedrica, che spazia tra cinema, teatro, musica, doppiaggio. Come sei venuta in contatto con queste diverse dimensioni e quali credi che ti appartenga di più?

Equivale a chiedermi  “come hai vissuto la tua vita”,  nel senso che sono nata da un padre attore di teatro (il compianto Francesco Carnelutti, n.d.r.) e una mamma psicanalista e già quello ha mescolato le cose della mia vita in maniera irreversibile. La ricerca dell’animo umano da tutti i punti di vista. Poi sono cresciuta in una scuola americana e ho vissuto un po’ in giro per il mondo; parlo cinque lingue perché sono appassionata di lingue, quindi anche quello in qualche modo ha contribuito a creare dei legami che non fossero solamente del mio paese, diciamo. Lo studio della danza, i seminari… questa è la mia formazione ed è una formazione da secchiona perché io studio tanto, mi piace! Mi piace leggere, fare seminari, fare corsi ed essere messa in crisi quando studio e quando lavoro e questo con Paolo Virzì accade e sempre in maniera molto felice. Quando dico essere messa in crisi da lui dico che è un regista che chiede agli attori di interpretare personaggi altri da loro, cioè che non siano una semplice espansione di chi sei tu. In Tutta la vita davanti mi aveva chiesto di interpretare una donna del tutto diversa da me e anche in questo caso, ne La Pazza Gioia si tratta di una donna molto diversa.

C’è stato un momento in cui ti sei resa conto che la carriera di tuo padre – il grande Francesco Carnelutti – sarebbe stata anche la tua?

Da piccola ho scritto su un diario che volevo fare il clown – volevo divertire le persone – in realtà ho fatto sempre ruoli piuttosto drammatici, tranne con Paolo o con qualcun altro. Adesso mi sembra di riuscire a recuperare questa via del clown, quindi evidentemente è qualcosa che avevo fin da piccola. Poi ho trovato delle mie immagini, c’è scritto 1974, non le ho ancora viste, è una pizza di pellicola (sorride, n.d.r.), evidentemente è qualcosa che è cominciata prima che io lo scegliessi; però c’è stato un momento in cui ho preso una decisione e là sono stata anche abbastanza messa in difficoltà, mio padre ha detto che era una pazzia ma poi ha detto anche che se volevo farlo dovevo studiare e arrangiarmi. Effettivamente gli sono grata perché questo non è un mestiere che si può fare se non si ha una voglia sconfinata di farlo anche quando non si sta lavorando.

Quindi dopo Tutta la vita davanti questa è la tua seconda volta con Paolo Virzì. Come vi siete rincontrati?

In realtà ci eravamo già rivisti per un provino in cui dovevo parlare toscano e non mi prese, però mi disse “ah ma il toscano lo sai parlare, allora ti richiamerò!” e questa volta ho fatto un provino, mi sono presentata con i capelli rasati – che poi nel film ho i capelli fucsia e lunghi –  e questo è stato un primo step. Lui era molto incuriosito dal mio cambiamento, che poi è quello che io cerco sempre. Rilavorare insieme è meravigliso perché ti conosci, ti capisci… ma anche se non ci fossimo conosciuti, c’è una tale chiarezza nel  suo modo di dare indicazioni e una tale fermezza e allo stesso tempo leggerezza, ironia, capaci di tenerti insieme e il fatto di sapere che lui ha le idee così chiare e che ti vuole bene – e te lo fa sentire che ti vuol bene – ti fa sentire libero e allora ti senti libero di osare, di azzardare delle cose che se non funzionano lui sarà lì a dirti “guarda, questa cosa non funziona, lascia stare”. A volte capita anche che, pur sentendoti libera, non ti spingi oltre il tuo limite perché non ti fidi che l’altro ti correggerà se vai in uan direzione troppo estrema o sopra le righe, invece Con Paolo Virzì te lo puoi permettere e credo sia un lusso lavorare con un regista che sa fare il suo mestiere.

E infatti ne La pazza gioia interpreti una psichiatra un po’ sopra le righe, che antepone l’istinto, il buon senso e l’empatia rispetto alle regole. Chi è Fiamma e cosa ti piace di più di lei?

Mi rispecchio molto con quello che hai detto: c’è questo suo essere sopra le righe che è anche finalizzato a un’omogeneità nell’economia del film, nel senso che Micaela e Valeria sono così estreme, che mettere accanto a loro una psichiatra statica sarebbe stato controproducente, ma quello che mi piace di questo personaggio e del suo modo di intendere il lavoro è esattamente questa capacità di vedere i suoi pazienti come degli esseri umani, come delle persone singolari e non delle persone da etichettare e curare in massa, come tanta psicologia e psichiatria moderna tenderebbe a fare. È qualcuno che si prende la responsabilità in prima persona della cura, quindi dello scambio, dell’ascolto e dell’indirizzamento del paziente.

Parlaci della tua esperienza con il Festival di Cannes. Quest’anno presenti due film, giusto?

Questa è la mia terza volta a Cannes, come interprete ero stata qua per La meglio gioventù, che vinse nella categoria Un Certain Regard e due anni fa col mio cortometraggio, Requiem  presentato allo Short Film Corner. Effettivamente è la mia prima esperienza da persona adulta e consapevole di che cosa significhi fare il mio lavoro anche pubblicamente e non solo in scena o dietro la macchina da presa. Oltre a La Pazza Gioia presenterò il cortometraggio The Silence, diretto da Ali Asgari e Farnoosh Samadi,  due registi molto giovani iraniani e prodotto da Giovanni Pompili. È nella selezione ufficiale di cortometraggi, sabato ci sarà la proiezione, è un corto che parla del silenzio in senso esteso, in particolare quello dei nostri Paesi sulla questione della migrazione, forse la questione più importante da considerare in questo momento storico.

Cosa ti sta emozionando di più di questa kermesse?

Guarda, non pensavo che sarebbe stato così, la verità è che vivo sempre i festival come un’occasione per lavorare. Per me la parte più complicata del lavoro è esattamente quello che stiamo facendo adesso: parlare di me, parlare del mio lavoro anziché farlo. Ma sto imparando a gestirlo e adesso mi sto anche divertendo. È stato molto emozionante sentire gli applausi per un quarto d’ora, è qualcosa avevo vissuto solo una volta (All’Auditorium di Roma per La meglio gioventù) e succede qualcosa di molto particolare a livello di energia, di fisica; ci sono tante persone che mettono insieme le loro emozioni a tua disposizione e ti rendi conto che in fondo non hai fatto altro che mettere a loro disposizione le tue emozioni per tanti anni. C’è una specie di ritorno di energia moltiplicata.