Noah Hawley e il cast su Alien – Pianeta Terra: “Un horror sci-fi ambientato nel futuro, per parlare del nostro presente”
Noah Hawley e il cast ci parlano di Alien: Pianeta Terra, la serie TV su Disney+ dal 13 agosto 2025, primo spin-off televisivo per il popolarissimo franchise.
Alien: Pianeta Terra arriva su Disney+ con i primi due episodi il 13 agosto 2025 – 8 in tutto, gli altri al ritmo di uno a settimana – ed è la prima volta in TV per lo storico franchise. Lo showrunner si chiama Noah Hawley, è uno dei nomi di punta della TV di qualità in America – è l’autore di Fargo e Legion – e comincia a parlarne discutendo di… Peter Pan. La serie è uno spin-off e un prequel del capolavoro del 1979 diretto da Ridley Scott; il capolavoro di J.M. Barrie è stata una nobilissima ispirazione. “Ho pensato a Peter Pan perché ho dei figli, e li sto crescendo in un mondo in cui dobbiamo confrontarci con la ribellione della natura e, forse, anche della tecnologia. Quando mi hanno chiesto se avessi delle idee per Alien, ho risposto che la storia parlava di Sigourney Weaver che tenta di proteggersi, contemporanemente, da un mostro alieno e dall’IA. Nel momento in cui abbiamo inserito dei bambini nella storia – la coscienza di bambino dentro un corpo sintetico – riferirci a Peter Pan era la cosa più naturale del mondo”.
Alien – Pianeta Terra non tradisce i film

La serie non tradisce i film: è sempre questione di alieni spaventosi, IA, esseri umani e avide multinazionali. Il passaggio dal cinema alla serialità ha però costretto Noah Hawley a darsi un po’ da fare per trovare il modo di far combaciare la solita vecchia storia con il nuovo formato. “Alien è un survival movie di due ore, una serie dura molto di più ed è piena di personaggi che non puoi far fuori subito, anzi, li devi esplorare. Per capire quale fosse il cuore dello show, ho cercato di allontanarmi per un momento dai mostri. Di cosa avevamo bisogno, mi sono chiesto? Gli alieni non mi preoccupavano, quando sono in scena loro il successo è assicurato”. Quello che serviva, oltre alle creature, “era un tipo di dramma in cui ci sono anche dei mostri umani, dove si discute di questioni che riguardano la nostra contemporaneità; solo, proiettate nel futuro”.
Il punto di forza di Alien: Pianeta Terra sono gli ibridi, IA dotate di coscienza umana. La protagonista si chiama Wendy, è un’ibrida ed è interpretata da Sydney Chandler. Come ha fatto a rendere in maniera credibile l’interiorità di un personaggio che è, allo stesso tempo, una donna e una bambina? “Wendy è una pagina bianca. Ovviamente non puoi fare ricerche su un ibrido, ma Noah ha costruito un personaggio assolutamente credibile”. I due versanti di Wendy, l’adulto e l’infantile, “li bilanciavo a seconda dell’attore con cui avevo a che fare; ognuno portava il suo colore. Poi, c’era questa immagine: due magneti che si oppongono. Uno è la mente, conosciuta. L’altro è il corpo, che è sconosciuto. Nel mezzo c’è un vuoto, ed è in quel vuoto che Wendy cerca risposte”. Impassibile in scena – è il sintetico Kirsh, algida IA incapace di provare emozioni – ma spiritoso fuori, Timothy Olyphant spiega di aver scelto la serie perché “mi ha chiamato questo signore qui (indica Noah Hawley, ndr). Non c’è molto altro da dire”. Gli chiedono dell’oscurità del personaggio. “Dite che è cupo? Non me ne ero accorto, pensavo di fare una commedia!”.
Alien – Pianeta Terra: umani, avide multinazionali e l’emozione di condividere il set con uno Xenomorfo

Alien: Pianeta Terra è stato girato in Thailandia. Alex Lawther, che nella serie è CJ “Hermit”, umano e fratello di Wendy, racconta che non è stato facile stare lontani “da casa per tutti questi mesi, ma ci hanno ospitati in maniera meravigliosa”. In termini di performance, “c’è molto sudore in questo show. Dipende dal lavoro dei nostri truccatori, certo, ma anche, per il 50%, dal 90% di umidità thailandese!”. Per Samuel Blenkin, Boy Kavalier, enigmatico tecnocrate e creatore di ibridi, parlare della location è utile per capire lo show. “Si avverte, nella storia, la sensazione che ci sia del marcio al centro delle cose, ed è un tema importante. Ovviamente, l’umidità ha reso le cose molto reali”. Il suo personaggio è reso più sinistro da alcune scelte di look, come l’abitudine di farlo camminare scalzo. “Non voglio prendermi tutto il merito, l’idea è il frutto di una collaborazione a tre con Noah e la costume designer, Suttirat Larlarb. I richiami a Peter Pan hanno pesato. A un certo punto si discuteva dell’abbigliamento del personaggio, del fatto che se ne andasse in giro in pigiama e così via. Ho pensato che bisognasse farlo camminare scalzo. Ho lottato, per questo. Alla fine delle riprese mi sono reso conto di non aver mai indossato scarpe sul set!”.
Oltre alla triade IA, alieni e pigiami, la serie è anche piena di avide multinazionali; c’erano anche nei film originali, ma in modo un po’ diverso, spiega Noah Hawley. “Se fossi tornato al capitalismo dei tardi anni ’70 avrei fatto un torto alla serie. Nei primi due film, Alien e Aliens, c’era una corporation senza volto, la Weyland-Yutani. Tutti i suoi dipendenti, si trattasse di camionisti spaziali o di guardie, prendevano ordini da questo conglomerato piuttosto opaco. Oggi è diverso, ci sono aziende dominate da giovani tecnocrati ed è da qui che viene Boy Kavalier. Se parliamo di Peter Pan come riferimento principale, beh, lui è Peter. L’impressione è che ogni cosa succeda per il suo capriccio”. La serie, diaboliche multinazionali a parte, è un horror fantascientifico. Il genere sci-fi è molto fluido; può essere ottimista, ma anche decisamente distopico. “Credo ci siano della fasi. Si parte con 2001: Odissea nello spazio, poi c’è Star Wars e infine Alien. Il mio compito, nel portare Alien sul piccolo schermo, era creare una visione del futuro in cui i personaggi si interrogano su cosa sia umano e se l’umanità sia in grado di sopravvivere ai suoi peccati; in un modo, si spera, ottimista”.
Il sintetico Kirsh ha permesso a Timothy Olyphant di seguire le orme di mostri sacri del franchise come Lance Eriksen e, soprattutto, Ian Holm. I paragoni non gli hanno tolto il sonno. “Per distanziarmi, è bastato tingermi i capelli di bianco. Ho la più grande ammirazione per il lavoro di quei signori, Dio solo sa quante volte ho visto la performance di Ian Holm. Se ho pensato a loro sul set, era perché ne ammiro il lavoro. Io, però, appartengo al progetto di Noah Hawley”. Sulla presenza di animali in scena, Noah Hawley precisa ridendo che nessun animale è stato ferito, “nessun gatto, anche perché non era reale. Come la pecora. Quella è animatronics. Una pecora virtuale. Un mucchio di pecore”. Gli animali non saranno reali, ma i bambini sì. Tra questi, c’è pure il figlio di Noah Hawley. “Spingo sempre i ragazzi a interessarsi al mio lavoro, e mio figlio mi ha chiesto se c’era un po’ di spazio per lui. Non nei Ragazzi Perduti, ma in un flashback di Wendy ed Hermit si poteva. Per far funzionare le cose, ho scelto di essere suo padre anche in scena. Con un attore, un estraneo, non avrebbe funzionato”.
Chiedono ad alcuni membri del cast quando abbiano visto Alien per la prima volta, e con che effetto. Comincia Babou Ceesay, l’enigmatico Morrow. “L’ho visto troppo presto, avrò avuto 9 o 10 anni, in Africa. Mi sembrava di ricordare in VHS, ma mia madre mi ha corretto spiegandomi che era un canale televisivo francese, e il film era sottotitolato. Ovviamente, il momento che mi ha colpito di più è stato quando la creatura esplode nel petto. Trovarmi, dopo tanti anni, sul set insieme a un vero Xenomorfo è stato incredibile”. Precisa Sydney Chandler. “Cameron Brown, è lui il nostro adorabile Xenomorfo. Dovrebbe parlare della serie insieme a noi”. Samuel Blenkin era leggermente più grande quando ha visto il film per la prima volta, “avevo tredici anni”, e l’effetto se possibile è stato più forte. “Non riesco più a vedere horror da allora, ho troppa paura. È più facile girare un horror che guardarlo. La cosa che mi ha fatto impazzire, del primo film, è che quando la persona che si è ritrovata in faccia il facehugger si risveglia, ci sono circa 20 o 30 minuti in cui non gli succede niente, e intanto pensa: ok, sto bene, magari faccio colazione. Ed è proprio in questo intervallo di tempo che succedono le cose più terribili. Credo sia un tipo di storytelling geniale”.
L’horror fantascientifico negli occhi dei bambini

Timothy Olyphant la pensa come il collega Samuel Blenkin: gli horror mettono paura a guardarli, ma lavorarci è un’altra cosa. “È un gioco da ragazzi, e divertente. Il materiale era ottimo. Di solito, quando partecipi a una grande epica sci-fi, devi rassegnarti a sacrificare la qualità, ma in questo caso siamo riusciti a ottenere entrambe le cose”. Non crede che fare troppe ricerche gli avrebbe facilitato il lavoro, anzi. “Sarebbe stato un grosso errore, scendere troppo in profondità. Non mi avrebbe aiutato”. L’orrore suscitato da Alien: Pianeta Terra, in realtà, è un po’ diverso da quello dei film. Di specie aliene ostili qui ce ne sono parecchie, una più inquietante dell’altra. L’idea, spiega Noah Hawley, era di riportare un po’ di mistero extraterrestre nel franchise. “Se lo scopo è trasportare l’esperienza emotiva di Alien in un nuovo contesto, lo show televisivo, il punto critico è il ciclo di vita dello Xenomorfo. È come se fossero quattro mostri in uno, e ogni step è più raccapricciante del precedente. Parte della paura – è quello che ha spaventato Babou – è che prima c’è il facehugger e poi, come ha detto Sam, sembra che il peggio sia passato. E invece, all’improvviso, la creatura ti esce dal petto”.
“Questo processo di scoperta è affinato da sette film, e non si può tornare indietro. Invece” aggiunge, “se introduciamo nuove specie, delle quali non sappiamo nulla – come si riproducono, cosa mangiano – la paura ritorna, perché ignoriamo quello che può succedere. Per me, è sempre stata questione di funzione, più che di forma. A che servono le creature? Ho fatto in modo che gli attori, in ogni momento, sapessero con che tipo di mostri avevano a che fare”. Il franchise di Alien, al di là del singolo progetto e dell’autore che se ne occupa, è proprietà – se non materiale almeno spirituale – di Ridley Scott. Noah Hawley parla degli inevitabili paragoni, “mi chiedete di Blade Runner? Beh, in effetti Ridley ha girato entrambi i film e capisco che, parlando di sintetici e di identità, si possano trovare similitudini tra quel film e la serie, soprattutto dal punto di vista estetico. Ma non ho mai cercato di rifarlo. Anzi, ho detto ai capi dipartimento: se provi a rifare Blade Runner, stai scegliendo il film sbagliato di Ridley Scott”.
Il confronto tra l’anziano maestro e il più giovane showrunner c’è stato veramente. Ecco come è andata, nelle parole di Noah Hawley. “L’ho incontrato nelle fasi iniziali del progetto. Avevo alcune idee, e volevo parlargli della lavorazione del primo film, di Prometheus e di Alien: Covenant”. La cosa incredibile, sottolinea divertito, “è che ho cominciato a parlarci mentre lavorava a The Last Duel, e ogni volta che ci vedevamo stava preparando un film diverso: Duel, House of Gucci, e poi Napoleon. Nel tempo che ho impiegato a fare una stagione, questo arzillo vecchietto di 87 anni ha girato tre film!”. Magari il ritmo non è lo stesso, ma Noah Hawley una cosa in comune con Sir Ridley ce l’ha. “Per entrambi il lavoro consiste nel prendere decisioni. Quando Ridley ha capito che non aveva quel tipo di responsabilità nei confronti della serie, era pronto a dedicarsi a un altro progetto. Ci siamo sentiti di quando in quando. Io mi occupavo dei miei progetti, lui dei suoi”.
Come per i primi due film, Alien: Pianeta Terra ha una donna per protagonista. A differenza di Alien e Aliens, è lo sguardo di una bambina, Wendy, ad essere centrale. Perché? Sempre Noah Hawley. “L’idea alla base di Alien è: siamo presi nel mezzo tra la tecnologia e la natura, e vogliono farci fuori entrambe. La prima domanda è se riusciremo a sopravvivere. La seconda, se meritiamo di sopravvivere”. Raccontare la storia dal punto di vista dei bambini aveva senso perché “i bambini sono pessimi bugiardi, non sanno fingere di non essere spaventati e non danno per scontate molte cose, come invece fanno gli adulti. In questo senso, sono naturalmente portati a smascherare il compiacimento e gli orrori del mondo dei grandi”. L’ambizione della serie, per Noah Hawley, è “portare il genere oltre la frontiera del puro intrattenimento. Certo, in questa storia non manca lo spettacolo, il divertimento, l’orrore, l’azione. Ma credo che la fantascienza abbia una responsabilità precisa, che sarebbe quella di affrontare le questioni del nostro presente immaginando un futuro in cui provare a risolverle. Gli spettatori possono godersi lo spettacolo, una puntata dopo l’altra. Ma spero anche che, dopo, continuino a pensarci. E a parlarne”.