Luciano Salce: quando la commedia è spietata. I film e la travagliata vita privata

Nato a Roma il 25 settembre 1922 e morto nella Capitale il 17 dicembre 1989, Luciano Salce racchiude in sé l'essenza di quel cinema ironicamente amaro, lasciato di una vita che gli ha letteralmente lasciato addosso il segno.

Luciano Salce, il 25 settembre 2022, avrebbe compiuto cento anni; per l’arte è stato tutto, attore, regista, sceneggiatore, commediografo, paroliere, conduttore radiofonico e televisivo, è sicuramente una delle figure prismatiche e poliedriche della cultura italiana che purtroppo ha avuto sempre poco spazio rispetto a quanto ne avrebbe meritato. Salce è un uomo libero, un artista completo, non ha mai avuto paura di esprimere le sue idee, anche a volte scomode, non si sente sempre rappresentato politicamente e per questo ha sempre avuto un pensiero libero. Ha iniziato a lavorare nel primo dopoguerra a teatro sia in Italia che all’estero, ed è stato in grado, attraverso tutti i media, di parlare e raccontare la nostra storia, di comprendere e tradurre i sentimenti e le spinte del nostro paese con un riso amaro e un’ironia pungente che nasconde un tormento strutturale, quasi atavico con cui fa pace solo grazie all’atteggiamento sardonico, cinico e dissacrante. Salce è uno dei grandi del nostro cinema, è nato nel ’22 proprio come Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Adolfo Celi, ha lavorato con i mostri della settima arte da Tognazzi a Manfredi, da Celi a Sordi, da Vitti a Mastroianni, ha narrato federali e voglie matte, le ore dell’amore ma anche la mediocrità amara dell’essere umano con i suoi epici Fantozzi. Quello di Luciano Salce è un percorso molto ricco, variegato, segnato da una versatilità o forse da un eclettismo che l’ hanno portato ad essere presente nello spettacolo italiano dagli anni ’40 agli anni ’80. 

Un racconto tra il riso e il pianto e la poetica dell’uomo dalla bocca storta

L’ironia è una cosa seria, prendendo in prestito il titolo di una mostra dedicata al padre dal figlio Emanuele, anche lui regista e attore, e Luciano Salce lo ha sempre saputo. Forse è proprio questa in sintesi la poetica dell’uomo dalla bocca storta, titolo del docufilm di Emanuele per il genitore, a cui segno e nome sono stati dati per il ghigno che aveva sul volto. In un’intervista all’Avvenire il figlio dice: “la bocca storta, ce l’aveva per via di un incidente d’auto, mentre veniva riaccompagnato in collegio. Alla guida c’era mio nonno, un padre duro che lo aveva “rifiutato”: lo riteneva responsabile della morte della madre. La gran botta sul cruscotto di ferro gli costò un’operazione delicata con l’innesto di una mandibola d’oro che poi perse in maniera violentissima.. gliela scipparono i nazisti”.

Sembra un episodio di poco conto, o comunque un urto doloroso le cui conseguenze si limitano alla sfera privata, invece non è così, marchia in maniera indelebile la sua vita come lo avevano fatto in passato la morte di parto della madre e la mal sopportazione da parte del padre, e come lo farà la prigionia (la deportazione in un campo di concentramento dopo l’armistizio, dove resterà per ben due anni). La mandibola d’oro gli viene rubata allo Stalag, il lager dove vengono internati i prigionieri di guerra, gliela strappano. “Un grande dolore fisico e una ferita morale sempre aperta”, dice il figlio in più di qualche intervista, infatti nei diari scritti da Salce il biennio ’43-’45, quello forse più straziante della sua esistenza, viene riassunto con poche parole: “Due anni difficili”. Due anni difficili punto e basta; poi però quei giorni sono oggetto di un film memorabile che come pochi altri spiega la guerra, il rapporto tra vincitori e vinti, paura e ferite umane, quest’opera è Il federale (1961) in cui lui elabora tutto anche assegnandosi il ruolo di gerarca nazista. Salce è proprio quell’uomo dalla bocca storta, a metà tra il riso sguaiato e il pianto frenato per il troppo pudore, trattiene lacrime e strazio traducendole con ironia cinica e feroce a tratti in racconti umani, espressione del periodo. Costruisce la commedia all’italiana, nelle sue opere c’è la politica, c’è l’ideologia, sua, di individuo libero, ma è mediata dall’umorismo, ciò che lui pensa c’è sempre anche quando si perde e si disperde nel grottesco. Il cinema di Luciano Salce è pieno di sfumature, è un prisma tanto quanto lui, è spesso in bilico tra moti e mondi differenti, farsa e commento sociale, tragedia e commedia, e lo fa tutto insieme, nello stesso film, nello stesso personaggio.

Tra Il federale e La voglia matta, la commedia (anche spietata) di Luciano Salce per narrare la storia e la società

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Di tutti i personaggi mostruosi, forse uno dei più terribili che ben definisce il suo cinema è il vigilante fedele al verbo mussoliniano, anche dopo la fine di tutto, di Il federale, Primo Arcovazzi interpretato in maniera perfetta da Ugo Tognazzi. Un uomo spaventoso proprio perché realistico, molto, anche troppo, lui non capisce che il mondo è cambiato, che è nato un nuovo giorno. Il suo sguardo è miope e la sua poco aderenza alla realtà è ancora più evidente perché è in viaggio con Erminio Bonafé, il professore saggio e antifascista che legge L’infinito di Leopardi e prova a illuminare la mente del suo compagno e carceriere. Con Il federale fa un lavoro importantissimo, lo stesso che viene fatto da altri registi in quegli anni, Tutti a casa, La grande guerra, Una vita difficile e così via, estremi della commedia matura che mette in scena la storia in maniera differente, si ride anche di qualcosa che ferisce e uccide, si piange e si sorride provando tenerezza di quell’umanità di cui volente o nolente facciamo parte noi tutti.

La forza del personaggio è data anche dalla scrittura di Castellano e Pipolo con cui Salce lavorerà altre volte (La voglia matta e poi Le ore dell’amore). La stessa potenza è data da La voglia matta, uno dei titoli che più di altri mostra la poetica del regista e quanto il suo cinema si allinei alla commedia all’italiana. Tognazzi, di nuovo protagonista, si lascia spogliare della propria dignità per inseguire un desiderio mai pago e impossibile, il corpo sensuale di Francesca (Catherine Spaak). L’uomo, Antonio Berlingheri, è maturo e perde la testa per l’ennesima ninfetta, lui fa di tutto per attirarla a sé ma parlano due lingue diverse, cerca di insinuarsi in un mondo, quello dei più giovani anche per far parte di una generazione che in un modo o nell’altro lo rigetta. Del personaggio di Tognazzi ridiamo e ci prendiamo gioco, perché Antonio di fronte a Francesca perde la padronanza di sé e pende dalle sue labbra, si dimentica di avere un figlio da raggiungere, viene immerso negli anni ’60 (dischi, motori, pacchetti di Marlboro, James Dean entrano prepotentemente nella sua vita), sballottato tra il desiderio di avere Francesca e quello di non perdere la faccia di fronte agli amici di lei che lui mal sopporta. Lui è l’ingegnere arrivato tra i grandi, professionalmente stimato, un conquistatore impenitente, lì, al mare, con gli amici di Francesca, soccombe. Salce costruisce un’epoca, mostra l’uomo e la donna, in tutte le loro differenze dettate anche da due età diverse: lui fa l’uomo che non perde un colpo, il suo motto è: “Mai mettere la donna sul piano sentimentale, sempre sul piano orizzontale”, lei è il futuro, è la donna di domani, libera, indipendente, sicura di sé e del suo ascendente, si diverte e non se ne vergogna.

Luciano Salce, la commedia all’italiana e il suo amaro distacco che nasconde un profondo dolore

Salce ha fatto sorridere con intelligenza sulle cose serie, anche sull’Italia postfascista, anche su ciò di cui non si poteva ridere fino a poco prima, ha graffiato la superfice del mondo con le sue sferzate caustiche, è in grado di guardare ciò che lo circonda anticipando temperie culturale, cambiamenti sociali, urgenze. I suoi film dimostrano la sua cultura raffinata, il suo acume, sa essere leggero ma anche profondo con l’amarezza di chi vede tutto e forse proprio per questo sceglie questa strada, gioca con queste spinte e riesce a prendere il proprio posto nella commedia all’italiana. L’esistenza è fatta di sofferenza e da questo deriva il suo amaro distacco, il suo cinismo, elementi importanti della sua cinematografia.

Nei quindici anni che vanno dalla seconda metà degli anni quaranta agli anni ’60 entra in contatto con tutto il mondo dello spettacolo italiano, scrive, recita, dirige, lavora in Italia (il Teatro dei Gobbi insieme a Franca Valeri e Vittorio Caprioli) e all’estero (in Brasile nel ’51 dove trova già degli artisti italiani con cui forma un gruppo forte composto da Adolfo Celi e Fabio Carpi). In più di 50 film da attore e qualcuno in meno da regista, Salce è stato in grado di mettere in campo vizi e malcostumi, miserie e debolezze dell’Italia degli anni ’60-’70-’80.

Salce è in qualunque arte capace di parlare di politica anche mentre parla di crisi di coppia, anche quando racconta le disavventura di un piccolo uomo qualunque, e si prende gioco addirittura delle pagine più tristi della nostra storia. Da sempre è attento alle sorti della democrazia e la sua arma è la goliardia con cui percorre il cinema a cavallo tra gli ultimi anni ’50 e la prima metà dei ’60. Il momento cruciale è proprio questo e lì arriva l’incontro con Nino Manfredi con cui realizza il suo primo film, Le pillole di Ercole, nel 1960.

Luciano Salce, il suo Fantozzi e le anatre all’arancia: l’umorismo nasce anche dai piccoli o grandi dolori

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Salce non si mette paletti, racconta pregi e difetti della società italiana contemporanea, contribuisce in maniera decisiva alla storia dello spettacolo italiano con rara ironia e umiltà. A volte i suoi sono successi commerciali, altre inciampa realizzando o film “fantasma” o film d’autore che non colpiscono il pubblico. Al primo gruppo appartengono sicuramente Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi, espressione di una mediocrità umana tanto vergognosa quanto patetica. Ancora una volta Salce è spietato, gioca con quell’essere umano sbagliato, quel ragioniere, diventato una delle maschere più caratterizzanti del nostro cinema che si fa pietosa e impietosa rappresentazione della maggioranza “pecoraia” perché non ha idee sue ma si veste con quelle degli altri e su di lui ricadono catastrofi e sfortune. Fantozzi è grottesco e servile nei confronti dei potenti, tanto da diventare invisibile, è “deforme” e difforme eppure i suoi vizi bagnano l’uomo comune, mostra punti deboli che ciascuno ha avvertito almeno una volta e esibisce i desideri che non potrà soddisfare mai (l’attrazione e l’amore per l’iconica signorina Silvani). È talmente gentile da diventare la negazione stessa dell’Uomo, non è un caso che coloro che sono sopra di lui lo chiamino “Fantocci”, nomen omen, e quando la signora Pina chiama in azienda per sapere dove sia il marito scomparso da 18 giorni nessuno lo conosce. Vorrebbe aspirare a qualcosa di più ma non ce la fa perché non ne ha le forze – cosa che spesso capita nella commedia italiana. Salce crede un po’ in ciò che crede anche Mark Twain: “Tutto ciò che è umano è patetico. La segreta fonte dell’umorismo non è gioia ma dolore”; qui sta la profonda relazione tra comico e tragico, qui sta il riso e il pianto di Ugo Fantozzi, uno dei personaggi più “drammatici” del cinema italiano, pieno di tic e contratture. Quella di Salce e Villaggio diventa una sagace e subdola critica di quegli anni, si sentono ancora le urla di rivolta del ’68 ma si percepiscono in maniera altrettanto forte gli anni bui del terrorismo. Con una comicità senza tempo si dimostra come politica e società non siano all’altezza dei loro compiti e cavalchino la pochezza indifferenziata. Si ride così di questo povero cristo, si umilia colui che non può salvarsi da solo.

Fantozzi è il campione della stagione ’74-75 e di Salce sono due film del 1976 che sono nella Top Ten: Il secondo tragico Fantozzi e L’anatra all’arancia. In L’anatra all’arancia racconta con la sua solita ironia sarcastica e pungente, col suo tono surreale, la storia di una coppia alto borghese, quella di Livio e Lisa Stefani, interpretati da Ugo Tognazzi e Monica Vitti che vince un David di Donatello come miglior attrice protagonista, che è in crisi. Lei ha incontrato un altro uomo, Jean- Claude (John Richardson) del quale si è innamorata e progettano di scappare insieme in Spagna per sposarsi e ricominciare una vita; Livio, senza scomporsi o fare inutili scandali o discussioni, decide di invitare a casa loro, per tutto il weekend, l’amante della moglie e la sua segretaria, Patty (Barbara Bouchet). Il film analizza la coppia in crisi, tra scaramucce e scontri, in questo modo Salce indaga anche il rapporto tra gli esseri umani e la temperie culturale dell’epoca.

I film dimenticati tra satira politica e disamina della società

Tra il ’68 e il ’69 Salce porta però sullo schermo due sceneggiature di Ennio De Concini che sono esempi di un cinema di rottura, una sorta di dinamite per chi guarda. Diventano espressioni talmente reali e sconvolgenti che non possono non turbare ed è forse per questo che Salce non ha il successo sperato; è stata messa in atto quasi una censura proprio perché le opere diventano una sorta di offesa “al pubblico pudore” in quanto istantanee di una società. C’è ad esempio La pecora nera (1968) in cui si racconta di due gemelli diversi, interpretati da Gassman; il film colpisce la politica italiana, soprattutto la Democrazia Cristiana. Si può pensare che un’opera come questa non sia scomoda? Assolutamente no. La stessa cosa capita per Colpo di Stato. Si tratta di una storia assurda: il Partito Comunista vince la tornata elettorale ed è talmente impensabile che gli stessi vertici dichiarano nulle le elezioni e pretendono di tornare al ruolo molto meno scomodo di opposizione moderata. Salce colpisce la politica come aveva fatto con i colleghi e i capi del ragioniere protagonista di Fantozzi, insomma la matrice è sempre la stessa, come nel piccolo film Il sindacalista (1972) che fin dal titolo spiega l’argomento.

Luciano Salce, il narratore dell’ironico dramma dell’esistenza, fin troppo sottovalutato

Salce purtroppo è stato spesso sottovalutato, sminuito come rappresentante di un cinema che produce commedie demenziali, pensiamo anche a Vieni avanti cretino (1982), una carrellata sulla storia dell’avanspettacolo dal dopoguerra in poi, è una figura eclettica e anomala che proprio per la sua poliedricità è stato considerato dalla critica del tempo con un certo distacco eppure è stato in grado come tanti altri, ma come pochi a suo modo, di parlare di chi siamo stati, chi saremmo diventati. I suoi lavori e il suo lavorare sono pura espressione di un’intelligenza vivida e sagace che ha saputo dipingere uno spietato ritratto/autoritratto di quel carattere bizzarro che contraddistingue gli italiani, e che ha saputo scrivere una riflessione, sempre semiseria, di quanto possa essere assurda, tremenda e irresistibile la vita. Luciano Salce è il narratore sagace del dramma dell’esistenza che si trasforma con l’amara ironia in commedia.

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