Kelly Reichardt su The Mastermind: “Josh O’Connor, nel mio film, fa l’antieroe anni ’70”

Kelly Reichardt incontra a Roma la stampa per parlare di The Mastermind, l'heist movie con protagonista Josh O'Connor che riscrive le regole del genere.

Kelly Reichardt è una delle voci più idiosincratiche del cinema americano. Gira film dalla sobria eleganza formale e senza troppa fretta di arrivare al punto, mentre gran parte dei colleghi punta sulla camera a mano e l’elettricità del montaggio. Il suo lavoro sul genere è sempre teso alla destrutturazione, a rivelare le virtù di una storia una volta liberata dalle convenzioni – leggi, le costrizioni – tipiche di un modo stereotipato di fare storytelling. I personaggi, soprattutto ma non solo quelli maschili, sfidano apertamente le concezioni standard di mascolinità e femminilità. Insomma, ci troviamo di fronte a un corpo d’opera teso alla costante reinvenzione delle forme e dei significati. Non va diversamente per The Mastermind, scritto e diretto da Kelly Reichardt e nelle sale italiane – dopo il passaggio in concorso a Cannes – il 30 ottobre 2025 per MUBI, la piattaforma del cinema d’autore. La storia, 100% Reichardt, è quella di James Mooney (Josh O’Connor), che nel Massachusetts suburbano del 1970 ruba da una galleria d’arte quadri del pittore astrattista Arthur Dove all’insaputa della moglie (Alana Haim) e dei genitori (Bill Camp e Hope Davis). Le cose, ovviamente, non andranno come previsto.

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The Mastermind; cinematographe.it

Il cast – comprende anche Gaby Hoffmann e il frequente colaboratore John Magaro – è pregevole, ma è chiaro che gran parte del peso è posato sulle spalle del protagonista, Josh O’Connor. Di lui, meglio, del personaggio, Kelly Reichardt – a Roma per parlare con la stampa – dice, “James ha tante frecce nel suo arco. È un bell’uomo, di talento, istruito, con una vita comoda da esponente della classe media. Forse non ha pazienza e vuole una scorciatoia per realizzare i suoi obiettivi, o magari sta solo cercando di ribellarsi a suo padre, a un’esistenza suburbana”. Il film procede in modo curioso. Parte da heist movie (semplificando, film di rapina) e poi diventa qualcos’altro, “non è più cinema di genere e segue James nel suo percorso. Lui vuole che i suoi obiettivi si realizzino, a tutti i costi, perché pensa che è così che le cose debbano andare”. Possibile ci sia, nella storia, qualcosa del conflitto tra individuo e società, ma le motivazioni di James non sono sempre chiare.

“James” prosegue Kelly Reichardt, “è un po’ un prototipo in cui il pubblico può specchiarsi. Richiama alla mente gli antieroi del cinema americano anni ’70, personaggi con un sacco di problemi ma affascinanti e divertenti. Non so se questo tipo di caratterizzazione regga ancora, oggi. Josh gli dà letteralmente vita. L’ha incontrato, sarebbe meglio dire che ha pensato a lui, mentre stava lavorando “allo script, e l’ho trovato perfetto. Josh ha un volto senza tempo, è un attore fisico, un camaleonte. L’ho fatto lavorare con un coach linguistico perché volevo replicasse alla perfezione il dialetto di quelle parti; c’è riuscito. La prima volta ci siamo incontrati a New York ed è stato divertente, così ho cominciato a mandargli della roba e ho continuato a scrivere il film con la sua immagine in mente”.

The Mastermind: le regole sono importanti, ma bisogna avere anche il coraggio di infrangerle

The Mastermind; cinematographe.it

The Mastermind è la puntigliosa ricostruzione del sapore di un’epoca. Kelly Reichardt sapeva come muoversi. “Siamo in Massachusetts, l’anno è il 1970 e la stagione è l’autunno; è questo che doveva mostrare il film. Gli anni ’60 sono finiti da poco, le cose non hanno funzionato, ma non siamo ancora dentro il nuovo decennio”. Per preparare Josh O’Connor, ha pensato proprio a tutto. “Gli ho fatto ascoltare dischi del periodo, leggere i saggi di Joan Didion e guardare film sperimentali sulle famiglie della zona. Ho cercato di servire il quadro generale e i dettagli, e di essere il più possibile precisa. Non volevo che il film avesse l’aria di dire: signore e signori, ecco a voi gli anni ’70!”. La colonna sonora, firmata Rob Mazurek, è avvolgente, un tripudio di free jazz molto in tono con l’atmosfera. Dipende “dalla musica che stavo ascoltando in quel periodo – Sun Ra, Miles Davis, Pharoah Sanders – e di come questo jazz minimalista si adatti alla storia di James. Il personaggio improvvisa in continuazione, quindi la musica deve essere oggettiva, guardarlo da fuori, decostruirlo. La musica è stata suonata con strumenti d’epoca, mixata in mono per dare la sensazione di trovarsi davvero in quel mondo. Volevamo essere precisi, e trasmettere un senso d’urgenza”.

Si è già detto, ma vale la pena di ripeterlo, che The Mastermind parte come film di genere, heist movie, e poi cambia pelle. Perché? Era la storia di James, per Kelly Reichardt, a imporre al film fluidità. “L’idea iniziale era che The Mastermind partisse come film di genere e poi si aprisse man mano che le cose si complicavano per James, dal momento che lui non ha un piano preciso, piuttosto improvvisa, sempre. Magari non si può parlare di un imperativo che mi ero data, ma di un concept iniziale, sì”. Si è trattato, a conti fatti, di un ribaltamento di prospettiva. “Generalmente in un heist movie le cose vanno così: un tizio esce di galera, incontra altri tizi, fanno la rapina, la rapina funziona, si ritirano, punto. Ora” ed è la quieta rivoluzione del film, una rivoluzione strutturale, narrativa, che influenza il modo in cui è raccontato il personaggio interpretato da Josh O’Connor, “ho messo nel primo atto la rapina e nel secondo le conseguenze, la stasi, quello che in un heist tradizionale è l’introduzione”.

Si concede un po’ di sana autoironia. “Ce la metti tutta a distruggere le convenzioni e, una volta che ci riesci, capisci perché sono importanti! (ride, ndr). Il terzo atto, scriverlo, è stato un problema, perché “c’erano dentro troppi personaggi, troppe linee narrative. Ho chiesto aiuto a un mio partner di scrittura che non partecipava al film che mi ha detto di non perdermi nel marasma delle idee e dei personaggi. Dovevo restare semplice, seguire la linea della storia”. Non è solo regista, Kelly Reichardt, anche insegnante di cinema. “Insegno a filmakers che seguono un approccio non convenzionale, non narrativo, e ho sempre sognato di poter essere come loro. Ma non ci riesco, forse non ne ho il talento. Sono una regista per cui la struttura è sempre importante”.

L’incredibile infanzia di Kelly Reichardt e il confronto: Nixon vs. Trump

The Mastermind Cinematographe.it

Un commento sui bambini, sono Sterling e Jasper Thompson e interpretano i figli di James, Carl e Tommy, riferito nello specifico alla curiosa dinamica tra i due – uno parla sempre, l’altro quasi mai – permette a Kelly Reichardt di chiarire il sostrato di riferimenti autobiografici che permeano The Mastermind, non tanto dal punto di vista dello sviluppo narrativo, quanto dell’atmosfera. “Dipende forse dalla mia infanzia in Florida. Quello che ricordo è il tempo passato in macchina. Mia madre” prosegue, svelando un inedito frammento del suo passato, “era un’agente della narcotici sotto copertura. Passavamo in macchina un sacco di tempo, appiattite sul fondo, spesso dovevamo spostarci di corsa da una macchina all’altra, per via del suo lavoro. Mia madre si travestiva, fingeva in continuazione di essere qualcun’altro, e io pensavo fosse un’hippie, poi ho scoperto che era vero il contrario, era una poliziotta. Ci ho messo un po’ a capire”.

Forse è per questo che le regole hanno un ruolo importante nella vita e nel lavoro di Kelly Reichardt. “Sentivo che non dovevo essere lì perché mi stavo nascondendo, capivo anche che mia madre stava infrangendo alcune regole. La confusione dipende dal fatto che ti rendi conto che c’è qualcosa che non va nel comportamento dei tuoi genitori, ma sei comunque dalla loro parte. Ecco, dai due bambini, nel film, volevo un po’ di questo… il padre gli chiede di mantenere il segreto, ed è impossibile che un bambino non si senta confuso”. Le regole sono tante, e strutturano il senso del cinema di Kelly Reichardt. Riferite a The Mastermind, prevedevano “indicazioni per il mio direttore della fotografia, Christopher Blauvelt, su come muovere la macchina da presa. Ma anche niente malinconia, nessun tramonto e zero sentimentalismo. Un mio amico regista, Todd Haynes , chiude, “mi ripete spesso che non ci sono regole nel nostro lavoro, ma a me questo genere di limiti piace”.

E poi c’è Trump, e Nixon, guerre ovunque, agitazione sociale, una nazione polarizzata. Sono tante le similitudini tra il 2025, l’anno in cui The Mastermind esce nelle sale, e il 1970. Il punto di partenza è la Casa Bianca, e il suo illustre inquilino. Nel 1970 c’era Richard Nixon, nel 2025 una figura altrettanto peculiare. “Peculiare?” interviene, scherzando ma non troppo, Kelly Reichardt, “che bisogno c’è di essere così generosi? Sapete” spiega, “abbiamo girato il film nell’autunno del 2024, proprio nel momento della rielezione di Trump; è stato un grosso shock per tutti. Sapevo che sarebbe stato brutto, ma vedere la Guardia Nazionale che pattuglia le strade di città come Portland e Chicago per far sparire la gente con la giustificazione di guerre sociali inesistenti, beh, non pensavo che la situazione sarebbe degenerata così in fretta”.

Continua con l’autobiografia. “Il mio primo ricordo politico è questo: sono in piscina con i miei amici, e guardiamo in tv Nixon che si dimette. Non capivo al 100% quello che succedeva, ma era chiaro che c’era un adulto in difficoltà, e la cosa mi colpiva”. Una cosa che la colpisce, ora, tornando con le immagini a quel mondo, per esempio con i suoi studenti, è questa. “Durante le sedute del Watergate, poteva succedere che i senatori di una o dell’altra parte scoppiassero a piangere per la vergogna, sconvolti dal fatto che un’amministrazione potesse comportarsi in modo così disonesto con i suoi elettori. Se i ragazzi di oggi vedono queste immagini si mettono a ridere, perché pensano che le lacrime siano artificiose! Ci sono intere generazioni che non riescono a concepire che il governo possa lavorare per la collettività”. Le cose cambiano in fretta, in un modo che Kelly Reichardt non poteva prevedere quando ha cominciato a lavorare a The Mastermind. Conclude scherzando. “Sono arrivata a pensare: Nixon? Non era poi così male!”.