Thierry de Peretti: “Con Una vita violenta ho dato voce a chi non l’ha avuta prima”

Nazionalismo, ideologia e scandalo. Il regista Thierry de Peretti ci parla di Una vita violenta, suo secondo lungometraggio presentato nel 2017 a Cannes.

Una carriera premiata nel teatro, che si amplia con il cinema e con l’uscita del suo secondo lungometraggio, presentato nel 2017 nella sezione della Semaine de la Critique a Cannes. Thierry de Peretti, che ha debuttato nel 2013 con Apache, arriva in sala il 23 maggio con la sua seconda opera, Una vita violenta, storia di ideali politici e giovani rivoluzionari, di cui l’autore stesso – anche alla sceneggiatura del film insieme a Guillaume Bréaud – ci parla.

Di certo Una vita violenta non può che essere visto come un film controverso, soprattutto per l’aspetto della colonizzazione della Corsica, che sostiene il filo principale del film. Ci sono state delle polemiche in Francia?

“Alcune. Alla base c’è sempre la domanda sul perché ho scelto questo periodo del nazionalismo, visto che non è quello eroico. Perché in verità c’è stato un momento in cui il movimento era visto sotto una luce più eroica, ma ho voluto dare la parola agli altri, a chi credeva comunque in quella politica, pur attraversando quel preciso momento storico. Dall’altra parte mi piaceva l’idea che avrebbe potuto creare scandalo, alla fine, è sempre una delle aspirazioni del cinema.”

E come ti sei posto tu, in primis, come autore e regista di Una vita violenta?

“Nel film bisogna distinguere tra la parola dei personaggi e la loro visione del mondo con la parola del film e della sua visione del mondo. Sono cose che è bene avere sempre chiare. In più, l’obiettivo, era inquadrare l’infiltrazione all’interno di questo quadro e la distinzione che nel tempo si è fatta di chi entrava nella resistenza perché ci credeva davvero o solo perché era uno sbandato.”

Thierry de Peretti: “Ormai l’identità è qualcosa di fluttuante, come quella del popolo. Per questo sono convinto che il nazionalismo possa portare alla guerra.”

Gli attori usano una naturalezza molto evidente nel film e sembrano veramente un circolo chiuso unito da amicizia, ostilità e ideali. Come hai lavorato con gli attori su questo senso di gruppo?

“Ho iniziato le prove con gli attori un anno e mezzo prima, appena la sceneggiatura è stata pronta. Non si tratta di attori professionisti, abbiamo fatto quello che in Francia viene chiamato “casting selvaggio”. Da subito abbiamo iniziato attraverso la regia creativa, avendo ben chiaro il soggetto e costruendo insieme la storia. Abbiamo lavorato molto sulle forme pratiche, come lo stare tutti insieme davanti alla camera da presa e cosa questo significa sia dal punto di vista fisico che della parola. L’idea è quella di concentrarsi sul lavoro come se non ci fosse né un inizio né una fine, si tratta quasi di affrontare degli workshop che si alternano, con scene scritte il giorno prima e poi altre da dover provare. La scommessa è quella di saper creare una visione comune sul mondo del gruppo. È possibile poi che, magari, alla fine il film neanche si faccia, ma è un rischio che va corso, perché si affronta quando ormai il gruppo è già al lavoro. Ma, anche solo questo tipo di esperienza, è la realizzazione di un’opera, è una possibile attuazione, il film non deve esserci per forza.”

In che modo avete lavorato, con il tuo co-sceneggiatore Guillame Bréaud, tra la verità e la finzione?

“In maniera molto fluttuante. Alcune cose sono state riportate in modo molto preciso, come l’intervista a François alla televisione e ripresa da noi su YouTube, per renderla il più similare possibile. Altre volte, invece, il tentativo era quello di utilizzare la storia per parlare di noi, della Corsica, non in senso filologico, ma tenendo tutto molto intrinseco.”

È vero che, per te, il nazionalismo può condurre alla guerra?

“Sono convinto che il nazionalismo sia un concetto superato e chi lo utilizza è solo per interessi economici e per i più potenti, non aiuta certo le nazioni. Come la questione dell’identità, per me si tratta di qualcosa di intimo, che non può essere di un popolo intero. Ormai, che l’identità sia qualcosa di fluttuante, è un dato assodato. Se ci si fissa soltanto su quello vorrà dire che ci si impegnerà sempre a correggere chi è diverso. Per questo il nazionalismo è una cosa folle e porta soltanto a dei disastri. Alla fine, quello in Corsica, era un nazionalismo moderno, che cerca intersezioni con la popolazione, non solo pura ideologia.”