Michele Braga si racconta tra canzoni e meraviglia: intervista al compositore

Alla Festa del Cinema di Roma, il compositore presenta La Preside, la serie di Luca Miniero con Luisa Ranieri. Un dialogo sincero tra musica, cinema e vita.

Ci sono artisti che, anche dopo anni di carriera, conservano la capacità di stupirsi come bambini.
Michele Braga è uno di loro. Lo capisci quando parla di musica, quando racconta di come ogni nuova partitura lo costringa a rimettersi in discussione, a cercare la verità emotiva dietro le immagini. La sua storia inizia da lontano, da quella curiosità onnivora che lo portava ad ascoltare tutto: dai cantautori italiani all’hard rock, da Chopin ai Radiohead.
E forse, in quell’immaginario così vasto e libero, c’era già il seme di un compositore capace di dare voce alle emozioni più complesse.

Intervista Michele Braga Festival Cinema di Roma Cinematographe.it

Lo incontriamo alla vigilia della presentazione, alla Festa del Cinema di Roma, di La Preside, la nuova serie di Luca Miniero con Luisa Ranieri, di cui ha firmato la colonna sonora.
Ma prima di parlare di questo progetto, partiamo da un piccolo film che è diventato quasi un manifesto della sua poetica: Basette, il cortometraggio di Gabriele Mainetti che ha segnato l’inizio di un lungo sodalizio artistico e umano.

Le origini di Michele Braga e la capacità di stupirsi

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In Basette c’è già tutto il mondo che poi hai esplorato nei film con Mainetti — la dimensione del sogno, la nostalgia, l’eroismo quotidiano. Se torni a quel momento, cosa ricordi di te come giovane compositore?
“Bella domanda. Non ci penso spesso. Di quel periodo ricordo che ero agli inizi. Ho avuto la fortuna di crescere a Roma, un luogo prescelto per il cinema: gli ambienti che frequentavo erano pieni di giovani registi e musicisti in erba. Tutti inseguivamo il nostro sogno. Chi voleva diventare un grande regista, chi un musicista. Mi sentivo avvolto da quel mondo. Quando giravamo Basette ero ancora dentro un sogno, in quel momento in cui fai fatica a spiegare alla gente “sì, ma poi di lavoro vero che fai?”. Devi convincere i tuoi genitori che quello che vuoi fare può davvero diventare un mestiere.
Conoscevo Gabriele già da ragazzo, ci frequentavamo anche fuori scuola. Poi ci siamo persi di vista per un po’, ma ci siamo ritrovati più grandi, con lo stesso sogno. Per fortuna. Basette è stato divertente: ci credevamo per passione. È la cosa più bella del cinema e della musica, ognuno con la propria arte, la possibilità di allargare lo sguardo. Le potenzialità del cinema sono infinite, e io ho sempre desiderato realizzare un cinema che potesse emozionare, più che divertire.”

Prima di Basette avevi già esordito al cinema con Come tu mi vuoi (2007)?
“Sì, era il mio primo film, diretto da Volfango De Biasi, un amico. Come spesso succede tra amici, avevo scritto gratis la musica per i suoi corti (ride). Quando poi ha realizzato il primo lungometraggio mi propose di scrivere dei temi da presentare alla produzione. Anche perché preferiva lavorare con chi conosceva e stimava. Quell’esperienza fu fortunatissima, e mi fece capire che forse sì, questo poteva davvero diventare il mio lavoro. Anche una commedia commerciale, in un certo senso, mi ha spinto a pensare in modo più concreto al mestiere del compositore.

Ti capita ancora, oggi, di sentire quella stessa meraviglia, quella curiosità un po’ infantile verso la musica e le immagini?
“Sì, sempre. Ogni volta che inizio un progetto. Lavoro nel mio studio anche 14 ore al giorno, è una grande passione. Certo, non tutti i progetti sono perfetti per me, ma cerco sempre di trovare una chiave personale, intima, sincera. Sento quel brivido quando riesci a dare un’emozione a un personaggio, quando la musica migliora ciò che era già stato pensato e scritto. Il rischio, lavorando tanto, è di percorrere strade già battute. Ma cerco di evitarlo, per non essere banale e ripetitivo.”

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Cosa ti aiuta a non perdere la capacità di stupirti, anche dopo tanti successi e collaborazioni importanti?
“Ti faccio un esempio. Quando insegno nei laboratori, vedo compositori bravissimi ma che tendono a far prevalere la loro idea musicale sulle immagini. Invece dovrebbe essere il contrario: il compositore è un autore, ma deve essere anche un narratore. Deve raccontare la storia con la musica, mettersi al servizio del racconto, saper fare un passo indietro. E questo accade solo se costruisci un rapporto paritario con il regista.
Io porto la mia esperienza, ma ho bisogno di sapere da lui il vissuto dei personaggi, la loro backstory. Con questo approccio riesco sempre a stupirmi, ogni volta che mi trovo davanti a una storia nuova da raccontare.

Una capacità fondamentale, quella di avere sensibilità per le storie che si raccontano?
“Assolutamente. Per trovare la sonorità giusta cerco di capire perché stiamo realizzando quel film o quella serie. Scegliere uno strumento piuttosto che un altro, usare o meno l’orchestra. Ti permette di essere sempre un po’ “vergine”, con uno sguardo nuovo. Io dico sempre scherzando che sono un po’ un orso, esco poco, ma nel mio studio vivo tantissime emozioni. Il compositore deve farsi invadere dalle storie, attraversarle, viverle. Non è sempre facile, ma è così che si resta sinceri. Esistiamo come autori nella misura in cui contribuiamo alla costruzione di una storia con uno sguardo artigianale.

Cos’è che rende sincera un’opera, secondo te?
“Quando c’è vita dietro un progetto. Quando il film mantiene una sua autorialità, una sua poesia. Lo senti perché è vivo, come è vivo l’apporto di ogni persona che ci ha lavorato. Io passo notti a pensare se avrei potuto fare diversamente qualcosa. Il cinema è vita, e anche una certa serialità può mantenere un suo calore umano.

Il lavoro di Michele Braga per La Preside

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La Preside è un progetto diverso dai precedenti: ironico, sociale, con una grande protagonista femminile. Come hai costruito il tono musicale della serie?
“Conoscevo già la storia grazie al programma di Domenico Iannacone “Che ci faccio qui”, in cui si raccontava la preside di un istituto di Caivano. Una donna con una forza incredibile, che ti faceva tornare la speranza che le cose possano cambiare, anche nei luoghi più difficili. Quando mi hanno chiamato ho accettato subito, anche dopo aver letto le sceneggiature. Non avevo mai lavorato con Luca Miniero, ma c’è stata subito una bella intesa. Mi sono anche divertito molto: è un progetto davvero riuscito.”

Quali sono state le sfide e le intenzioni musicali?
“Volevamo raccontare la forza di questa dirigente e dei ragazzi. Lei è una donna che va dritta per la sua strada — se ti metti di traverso, ti passa sopra. Questa energia l’abbiamo espressa con un linguaggio più percussivo, rullate di tamburi che accompagnano i suoi passi nei corridoi, per raccontarne il coraggio e il carattere. Allo stesso tempo volevamo mantenere una dolcezza, una malinconia di fondo. Io, per indole, tendo alla malinconia, al cantautorato americano, e così mi sono rifatto a quelle sonorità, suoni astrali, chitarre. Ho scritto anche qualche canzone. Con FM Records, che cura la parte editoriale, abbiamo inserito brani dell’urban napoletano, con una selezione accurata di pezzi originali e di repertorio — anche la sigla nasce da lì.

Cosa ti ha colpito del mondo raccontato da Miniero e come hai cercato di restituirlo in musica?
“È vero, il musicista traduce le parole del regista in suono. Con Luca c’è stata un’intesa immediata, anche grazie al lavoro con i montatori. Mi ha mandato un messaggio bellissimo per ringraziarmi del lavoro fatto: “Apprezzo troppo il tuo lavoro, anche se non c’abbiamo tanto tempo per dirselo”. Mi ha colpito molto, perché spesso dimentichiamo di dirci queste cose. Manca il tempo, ma dovremmo ricordarci che i riconoscimenti più importanti non sono i premi, ma le parole sincere delle persone con cui lavoriamo.
Ad esempio, quando ho lavorato al documentario di Roberto Andò su Ferdinando Scianna, ho ricevuto una mail da una montatrice del suono che mi ringraziava per le musiche. Sono piccoli gesti tra colleghi che per me valgono tantissimo.

Immagino quanto sia bello ricevere attestati di stima anche dal pubblico.
Sì, mi capita. Mi scrivono sui social per chiedermi di canzoni che non sono mai uscite sul mercato. Mi dicono: “Sto impazzendo per trovare quel brano”. È una necessità umana. La musica diventa un modo per esprimere sentimenti, che siano euforia o tristezza.”

Una fame di emozioni, quindi.
Esatto. L’arte sopperisce a una fame di sentimenti, spesso cullati da un po’ di tristezza. Mi succede soprattutto in autunno, un periodo in cui consumo tantissima musica, specialmente quella malinconica. Ti fa sentire meno solo.

Arte, attualità e nuove generazioni

Hai mai pensato che la musica possa essere una forma di resistenza — contro la superficialità, contro il disincanto?
“Come molti, sento che per un artista vivere in questo periodo storico non è facile. Non puoi essere impermeabile a quello che succede. Dalla pandemia in poi, avverto una sensazione quasi da fine del mondo. È come se questo tempo non premiasse più la sensibilità. Se tutto ciò che amiamo diventa irrilevante, se prevale la legge del più forte, è difficile restare indifferenti. Non so se la musica sia una forma di resistenza, ma di certo è una compagnia. In questo periodo ho sentito il bisogno degli altri, della famiglia, per trovare un appiglio, una ragione per restare in equilibrio.”

Come vedi la generazione di adesso, e quella capacità di resistere pur di continuare a inseguire i propri sogni?
“Ti faccio un esempio personale. Jeeg Robot per me è stato il primo grande film. Dopo quel lavoro non ho più dovuto cercare un impiego: mi chiamavano. Ma la lezione più grande è stata la perseveranza. All’inizio ero scoraggiato, pensavo di non farcela. Gabriele Mainetti ha impiegato cinque anni per realizzare Jeeg Robot: nessuno voleva produrlo. Ma non si è arreso. Ecco, questo mi ha insegnato che un’idea buona, portata avanti con dedizione, trova sempre la sua occasione. Si può tentare. Sempre“.

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Quindi non è la fine del mondo, dopotutto.
No, affatto. Anzi, guardando la vostra generazione vedo una capacità rara di parlare di sentimenti. Per me la famiglia è fondamentale, e imparo molto dai miei figli. Anche se sento un clima da fine del mondo, ho dei rifugi che mi salvano: la musica, la famiglia, il cinema. Se oggi avessi vent’anni, scalcerei ancora di più. Il segreto forse è uno: metterci sempre l’anima.
A proposito di rapporti umani: di recente, oltre a Pesci Piccoli, ho lavorato a un progetto con i The Jackal e il regista Francesco Ebbasta. Mi ha scritto un messaggio bellissimo per ringraziarmi “per l’anima” che avevo messo nel lavoro. Ecco, l’umanità sta tutta lì, nel rapporto sincero tra persone. Per questo dico che i ragazzi fanno bene a parlare di sentimenti, di paure. Se il cinema interessa ancora ai giovani è grazie anche alle piccole riviste online che ci mettono l’anima, o agli influencer che raccontano la propria passione. Utilizzare il linguaggio dei sentimenti è la cosa più rivoluzionaria che ci sia. E questo, davvero, mi dà tanta speranza.”