Luca Manfredi ricorda il padre Nino, dalla lettera di Calvino alla proposta di Billy Wilder
Intervista al regista che inaugura al Sudestival una retrospettiva su Nino Manfredi. Ci ha raccontato suo padre, i suoi ruoli preferiti, l’amore e la dedizione per il suo lavoro, l’affetto del pubblico e l’importanza di non dimenticare i grandi del cinema italiano.
Una retrospettiva dedicata a Nino Manfredi: dopo i festeggiamenti per il centenario dalla nascita, il Sudestival, il festival lungo un inverno, progetto dell’Associazione Culturale Sguardi, fondato e diretto da Michele Suma, dal 25 febbraio al 20 marzo a Monopoli, ricorda l’attore e regista con alcuni dei film più significativi della sua carriera. La retrospettiva si apre con il primo film diretto da Nino Manfredi, l’episodio L’avventura di un soldato (da lui stesso interpretato) presente nel film collettivo L’amore difficile, diretto anche da Alberto Bonucci, Sergio Sollima e Luciano Lucignani. A inaugurare la rassegna il figlio Luca Manfredi, regista di film come In arte Nino, Permette? Alberto Sordi, con il quale abbiamo fatto una lunga chiacchierata sull’indimenticabile attore e regista, e che ci ha svelato anche il suo prossimo film biografico per la Rai.
“L’idea di L’amore difficile fu del produttore Achille Piazzi”, ci ha spiegato Manfredi, “che decise di fare un film sul tema dell’amore e del tradimento in quattro episodi con una comune matrice di origine letteraria, tratti da racconti di Moravia, di Soldati, di Calvino e di Patti. L’intenzione del produttore era quella di fare esordire quattro attori che avevano dimostrato interesse per la regia e tra questi ci dovevano essere anche Gassman e Salerno, oltre a Bonucci e a mio padre. Solo che all’ultimo momento Gassman e Salerno fecero un passo indietro e decisero di partecipare solo come attori e furono poi sostituiti da Sollima e Lucignani. Mio padre invece sentiva il bisogno di misurarsi con il mezzo cinematografico e decise che doveva farlo tornando alle origini, al cinema muto, anche perché lui era un grandissimo appassionato di Chaplin e Buster Keaton, e quando Piazzi gli mandò da leggere alcuni racconti di Calvino lui scelse L’avventura dato che era praticamente un episodio muto, con pochissime battute. Piazzi sulle prime non fu molto contento di questa scelta, perché disse: “Ma tu che sei un attore di battuta, che fai ridere per il modo in cui le dici, ci vuoi privare di tutto questo?”. Mio padre lo convinse che quella sarebbe stata una prova importante per lui, gli promise anche che se l’episodio muto non avesse avuto il riscontro che lui immaginava lo avrebbe riempito con una voce fuori campo che esprimeva il pensiero del soldato, infarcendolo anche di battute comiche che poi riuscì a evitare. Quello fu per Nino un grandissimo omaggio al cinema muto e a Chaplin in particolare, che era il suo grande mito, memore anche degli insegnamenti del suo maestro d’Accademia Orazio Costa che gli insegnò che prima della battuta bisognava imparare a esprimersi con il corpo, e per lui fu una grande prova d’attore e da regista.
Calvino sulle prime era molto scettico sulla trasposizione cinematografica del suo racconto ma dopo aver visto il film scrisse una bellissima lettera a Nino dicendo: “Caro Manfredi, sono andato a vedere L’amore difficile e quando è passato il nostro episodio io piano piano sprofondavo nella poltrona perché mi sentivo scoperto dentro”. Quella fu la sua prima esperienza come regista di cortometraggio e poi seguì quella più importante con Per grazia ricevuta che fu la sua prima regia di lungometraggio che gli consentì di vincere a Cannes la Palma d’oro come migliore opera prima, e poi era un film fortemente autobiografico”.
Rappresentava in un certo senso il suo rapporto con la fede…
“Mio padre da poco arrivato a Roma con la famiglia dalla Ciociaria si beccò subito sotto il fascismo un’infreddatura che si trasformò in pleurite bilaterale che poi divenne tubercolosi, fu internato in sanatorio al Forlanini dove rimase tre anni e mezzo. E lì Nino ha assistito alla morte di tutti i suoi compagni di camerata che andavano tutti i giorni a pregare nella cappella dell’ospedale per essere risparmiati dalla malattia, lui che era l’unico che non andava a pregare perché era già scettico sulla fede per gli insegnamenti del nonno Giovanni che era un altro ateo, invece fu l’unico ad uscire vivo dall’ospedale. Quindi cominciò a farsi delle domande sulla religione e sulla superstizione, domande che poi lo hanno portato da grande a fare questo film che parla proprio della cattiva educazione religiosa e della ricerca di Dio, Dio che poi non ha mai incontrato”.
“Pane e cioccolata racconta il DNA della sua famiglia”
A quali altri film e ruoli era molto legato suo padre?
“Il ruolo al quale era più affezionato che racconta il DNA della sua famiglia, delle sue origini è Pane e cioccolata, la storia di un emigrante, di un italiano che va a lavorare in Svizzera, questo perché suo nonno Giovanni, che lui ammirava moltissimo e che riteneva un esempio di sacrificio e di dignità, per mantenere la sua famiglia andò a fare per 32 anni il minatore in America, e quindi il tema dell’emigrazione Nino lo conosceva molto bene provenendo da una famiglia contadina ciociara. Credo che Giovanni Garofoli sia uno dei personaggi più riusciti di Nino, è il film che io ho nel cuore. Poi ce ne sono tanti altri bellissimi: C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi sempre con dietro un grandissimo regista come Ettore Scola”.
In Brutti, sporchi e cattivi interpretava Giacinto Mazzatella, un personaggio amorale e grottesco tanto da portare a casa una prostituta e imporla come sua legittima consorte a tutta la famiglia, moglie compresa. C’è un dialogo allucinante: “Ma com’è tua moglie?”, gli chiede l’amante, “Comprensiva…basta menaje!”, gli risponde. Un livello di scorrettezza che oggi non sarebbe tollerato, cosa penserebbe suo padre del politicamente corretto imperante?
“C’è un momento per tutte le cose, in quel contesto di baraccati ci stava assolutamente, adesso siamo arrivati all’estremo opposto, bisogna stare sempre attenti a quello che si dice e a misurare le cose con il “bilancino del farmacista””.
Nino Manfredi era considerato un attore istintivo, invece era metodico nella preparazione dei ruoli…
“Aveva una recitazione apparentemente naturale, invece era frutto di uno studio approfondito, maniacale, grazie agli insegnamenti del suo maestro Orazio Costa. Dino Risi lo definiva “l’orologiaio” per la precisione con cui costruiva i suoi personaggi, sempre alla ricerca di un tic, di una caratteristica fisica o lessicale per poterlo interpretare al meglio come un attore di scuola americana. Giuliano Montaldo lo definiva invece il “cesellatore del copione”, sempre alla ricerca della battuta migliore fino a un attimo prima di dare motore. Mio padre non smetteva mai la ricerca del miglioramento”.
“Manfredi era L’orologiaio per Dino Risi, il cesellatore del copione per Giuliano Montaldo”
Era il tipo di attore che portava i suoi personaggi anche a casa, nella quotidianità?
“No, mio padre si staccava dai personaggi, quando tornava a casa tornava Nino per poi riconcentrarsi la mattina dopo”.
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Ci sono degli aspetti in comune tra Nino Manfredi e alcuni dei suoi personaggi? Penso ad Antonio di C’eravamo tanto amati, per esempio…
“Mio padre è stato in qualche modo un interprete moderno e coraggioso, si è fatto interprete, passami il termine, della ‘perdenza’, di personaggi sconfitti dalla vita come il cameriere di Pane e cioccolata, ma anche di personaggi più lievi e ironici che cercano una rivincita, un riscatto, come Marino, il barbiere di Straziami, ma di baci saziami. È riuscito a convogliare nei suoi personaggi sempre due anime, una più ironica e lieve che ti strappava un sorriso, una più malinconica, a volte drammatica, come nel caso di Brutti, sporchi e cattivi, che ti faceva riflettere, però sempre con un fondo di dignità, di onestà, prive di quel cinismo che spesso caratterizzava personaggi di altri grandi artisti della sua generazione come Sordi o come Gassman”.
Era consapevole di essere per il pubblico “uno di famiglia”?
“Questo glielo dimostrava l’affetto della gente, quando andavo con lui a mangiare al ristorante eravamo circondati di persone che gli esprimevano tutto il loro affetto, il loro riconoscimento e gli davano del tu, nessuno dava del lei a Nino, proprio trattandolo come uno di famiglia. E devo dire che questo è un segno, perché io vedo molti attori anche di oggi che invece tengono la gente lontana, la gente neanche osa avvicinarsi. Nel mio libro, Un friccico ner core, racconto un episodio incredibile: eravamo al mare vicino Formia, un pomeriggio d’estate stavamo facendo la pennichella che per mio padre era sacra e l’ha trasmessa anche a noi figli, avevamo questa villa sugli scogli, aveva un ingresso con un cancelletto di legno dal quale si entrava facilmente, e a un certo punto abbiamo sentito dei rumori giù in cucina e ci siamo spaventati perché pensavamo fossero dei ladri, invece abbiamo trovato una famiglia di napoletani che si era accomodata in casa e si erano fatti il caffè in attesa che mio padre si svegliasse. Mio padre rimase talmente sbalordito da questa cosa che non ebbe il coraggio di cacciarli. Questo dimostra la misura del suo rapporto con il pubblico, una scena surreale”.
I rimpianti: Billy Wilder e David Manet
Le ha mai parlato di un rimpianto, di un ruolo che avrebbe voluto interpretare…
“Mio padre dopo Pane e cioccolata andò in America con grande successo, ha cominciato a ricevere delle proposte internazionali, da Billy Wilder addirittura, e da David Mamet che venne a Roma pregandolo di fare un film con lui e mio padre che parlava male l’inglese, si rifiutò di partecipare a questi film perché non poteva recitare a memoria delle battute senza capirle fino in fondo. Mamet tornò una seconda volta cercando di convincerlo a fare Le cose cambiano ma non ci riuscì, quindi ha perso delle occasioni che lo avrebbero potuto far diventare un artista internazionale”.
Recentemente ha dichiarato che il nostro è un Paese dalla memoria corta e che si fanno poche retrospettive di grandi artisti come suo padre…
“E pochi cineforum nelle scuole, ci sono artisti straordinari come Aldo Fabrizi e Anna Magnani, che sono finiti nel dimenticatoio, questo è un motivo per il quale le nuove generazioni non li conoscono, e quindi ben vengano iniziative come quelle del Sudestival di fare queste retrospettive, tra l’altro particolarmente apprezzabili perché fatte da un gruppo di professori di liceo amanti del cinema. Io perché ho fatto un film su mio padre con Elio Germano? Perché quando mio padre se ne è andato nel 2004 mio figlio Francesco aveva 4 anni, 10 anni dopo ho fatto un piccolo sondaggio tra i suoi amici e mi sono reso conto che nessuno di loro conosceva Nino Manfredi. Solo quando ho nominato Geppetto se lo sono ricordato, perché Pinocchio di Comencini continua ad essere visto, e i genitori degli ultimi 50 anni continuano a far vedere quel Pinocchio ai propri figli, è diventato una specie di grande classico, un tesoro che continua a essere tramandato, ma come per Pinocchio dovremmo farlo con tante altre cose di grandissimo valore”.
Com’è stato raccontarlo nel film da lei diretto In arte Nino? Elio Germano era impressionante, ha riprodotto la stessa mimica, le stesse movenze di suo padre, che effetto le ha fatto?
“Io non ho scelto Elio a caso, sono sempre stato un suo grande fan, ho visto tutti i suoi film e mi sono accorto di quante microreazioni lui aveva preso da mio padre, infatti quando poi l’ho convocato per parlargli di questo progetto gli ho detto apertamente: “Io ho visto tutti i tuoi film e mi sembra qua e là di aver riconosciuto tante microreazioni di Nino, quindi qualche volta ti sei ispirato a lui?”, Elio mi ha guardato e mi ha detto: “Qualche volta? Nino era il mio faro artistico, il mio attore di riferimento, anche se so che interpretando Nino faccio un salto nel vuoto lo devo fare per il grande affetto e la grande riconoscenza che ho per lui”. Solo Elio poteva farlo. E nel film successivo che ha fatto, Questione di karma, ha dichiarato che aveva ancora Nino dentro, non riusciva a “smaltirlo” per quanto lo aveva studiato, addirittura era arrivato a guardare i film di mio padre nastrando lo schermo del televisore per non vedere la faccia, perché voleva concentrarsi sui movimenti del corpo”.
È vero che ci sarà un seguito di In arte Nino?
“Non è vero, ce lo hanno chiesto tutti ma Elio nel rigore che lo contraddistingue ha preferito non fare una seconda parte anche perché abbiamo già fatto un ottimo lavoro per omaggiarlo”.
Prossimamente un film su Paolo Villaggio e la nascita di Fantozzi
Quali sono i suoi prossimi progetti?
“Ho presentato in Rai un altro film biografico a cui tengo molto che è la storia di Paolo Villaggio e la nascita di Fantozzi, raccontiamo i suoi inizi, pochi sanno che lui era uno studente di giurisprudenza che non dava esami, aveva un fratello che era un genio della matematica e aveva quindi in casa un confronto difficile, il padre ingegnere era disperato perché Paolo era un po’ la pecora nera della famiglia. Paolo a un certo punto ha messo incinta la sua fidanzata e il padre lo ha costretto a lavorare alla Consip e lì ha fatto l’impiegato per 8 anni. Da quell’esperienza poi sono nati tutti i suoi personaggi che ha trasferito in Fracchia e Fantozzi. Penso che vedrà la luce all’inizio dell’anno prossimo, ancora non ho pensato a chi potrebbe interpretare Villaggio perché io preferisco prima portare a termine la sceneggiatura e poi dedicarmi alla ricerca degli interpreti. Amo molto i film biografici, in particolare quelli americani e inglesi, mi è piaciuto molto, per esempio, il film su Stanlio e Ollio, hanno avuto il coraggio di raccontare l’ultima fase della loro carriera quando non li voleva più nessuno”.