Intervista a Santiago Esteves, regista de L’educazione di Rey

Abbiamo intervistato Santiago Esteves, regista argentino che ha diretto il film L'educazione di Rey, al cinema dal prossimo 4 aprile

Santiago Esteves, classe 1983, è un talentoso regista argentino (è nato a Mendoza, ma dal 2007 vive a Buenos Aires) al debutto in Italia con il suo primo lungometraggio, L’educazione di Rey, di cui è anche co-sceneggiatore e montatore. Il titolo originale del film, La educación del Rey, gioca con l’omografia tra Rey, diminutivo di Reynaldo, e la parola spagnola ‘rey’, ossia ‘re’, una sottigliezza che nella traduzione si perde e, con essa, inevitabilmente, anche la nota ironica, perché Rey, il giovanissimo protagonista del film interpretato dallo straordinario Matías Encinas, in effetti, non possiede alcun regno ed è anzi, letteralmente, un ragazzino di strada.

La sua irruzione rocambolesca nella vita di un maturo ex addetto alla sicurezza di vetture portavalori, Carlos Vargas (Germán de Silva), cambia in parte il suo destino. Quel che era cominciato come il ritratto rigoroso di un’umanità ai margini della società, privata della protezione genitoriale e sedotta dal crimine, si trasforma ben presto in un eclettico racconto di formazione in cui un adulto che ha smarrito il senso del suo stare al mondo ritrova la speranza in un’urgenza di trasmissione del sapere, nel desiderio, apparentemente composto ma nondimeno appassionato, di educare e di amare. Anche se  si tratta di un’educazione alla strada e alle sue logiche feroci e dunque anch’essa, a suo modo, indecisa tra tenerezza e ferocia.

Il regista, già al lavoro sul suo secondo lungometraggio, appare entusiasta di presentare in Italia il film, un’opera dalle molte anime, narrativamente ed esteticamente sospesa tra polar, coming-of-age e affresco sociale, tanto formalmente spoglia quanto concettualmente densa che, in origine, era stata realizzata per la TV e, solo in un secondo momento, riadattata per il cinema. 

Santiago Esteves: invervista al regista argentino

Santiago Esteves, in principio la sua intenzione era quella di realizzare una serie tv, ma poi ha deciso di fare un film. Perché ha cambiato idea?

“Nel 2014, quando abbiamo cominciato a lavorare alla storia di Rey e Carlos, in Argentina c’erano molti concorsi che incoraggiavano le provincie come Mendoza, città dove è ambientata la storia, a produrre serie TV. Per questo motivo abbiamo pensato alla storia in primo luogo come serie, perché questo naturalmente ci permetteva di poterla realizzare in modo più veloce, i tempi si sarebbero allungati di molto se avessimo dovuto cercare i finanziamenti per produrre un lungometraggio. Una volta filmata e montata la serie, che alla fine risultò di otto capitoli di trenta minuti ciascuno, io decisi di trasformarla in un lungometraggio.

Per farlo, abbiamo dovuto montare nuovamente parte del materiale della serie e filmare nuove scene necessarie alla costruzione del racconto nella nuova versione filmica. Nel luogo in cui abbiamo girato, Mendoza, la serie ha riscosso molto successo, è stata vista da molta gente. Convertirla in un film ci ha permesso di ampliare il suo pubblico, di concederle una visibilità non più solo locale, ma anche internazionale. Ci permette oggi, ad esempio, di farla uscire in Italia”. 

È possibile che la sua intenzione iniziale – fare una serie e non un lungometraggio – si rifletta nella contaminazione dei generi? Nell’Educazione di Rey, molti temi e molti stili s’intrecciano. Alla fine il film potrebbe essere definito sia un racconto di formazione sia un thriller o un noir. Perché ha scelto questa modalità ‘ibrida’ di rappresentare la storia?

“Sì, è così. Una serie tv possiede una struttura più aperta, sia dal punto di vista narrativo sia dal punto di vista formale. Consente di sperimentare generi differenti, perché i capitoli possono benissimo funzionare anche come unità indipendenti. Credo che alla fine il film abbia mantenuto qualcosa di questo spirito eclettico. In ogni caso, quando ci siamo messi a lavorare al lungometraggio, abbiamo dovuto scegliere un punto di vista forte, dominante, che, poi, è quello di Reynaldo, e lasciare da parte molti personaggi secondari e molte sottotrame. Questo ha assicurato l’unitarietà al racconto”. 

Il regista Santiago Esteves racconta L’educazione di Rey

Già il titolo suggerisce che uno dei temi più importanti del film è l’educazione. Reynaldo è un ragazzino trascurato e la mancanza di cura famigliare, di un substrato affettivo, insieme al vuoto educativo, determinano il suo ingresso nel mondo criminale, il suo contatto con l’enorme corruzione che regola le relazioni e le opportunità sociali. In Argentina esiste un allarme sociale a questo proposito? Che riflessione vuole che scaturisca in che vedrà il film?

“Nel nostro paese esiste una rottura del patto sociale. Negli ultimi anni, a causa di un crescente impoverimento e della mancanza di opportunità per i settori più svantaggiati della popolazione, la delinquenza è aumentata. Oltre a ciò, i mezzi di comunicazione hanno contribuito a esasperare un sentimento di paura ed è così aumentata la discriminazione verso i segmenti più poveri della società, come se si trattassero di una mele marce e non di un problema dell’intera comunità. È un po’ come sostiene quel detto che si usa da noi, “ningún pibe nace chorro”, ossia nessuno nasce ladro. Sebbene il film non voglia fare la radiografia di questa realtà, credo comunque che riesca a proporre un’angolatura, una visione particolare di questa situazione”. 

In Italia moltissime opere audiovisive (film, serie) indagano gli ambienti criminali e l’iniziazione dei minori ai suoi codici e alle sue leggi. Lei ne conosce qualcuna? Esiste, secondo lei, qualche punto di contatto tra la tendenza argentina e quella italiana a raccontare storie di criminalità, tra la volontà e l’interesse d’indagare proprio questo aspetto della società?

“La popolazione argentina ha una forte impronta italiana a causa del fenomeno dell’immigrazione del XIX e del XX secolo. Il nostro modo di parlare e moltissime parole che usiamo recepiscono l’influenza italiana. Oltre a questo aspetto linguistico, che probabilmente incide, personalmente ho visto il film di Matteo Garrone, Gomorra, e lo considero magnifico. Sono stato lettore accanito di Andrea Camilleri, che considero un genio assoluto del romanzo giallo. Ma non posso dirmi altrettanto fan delle versioni televisive dei suoi romanzi, hanno sempre avuto poco appeal su di me”. 

Un’altra questione significativa che il film approfondisce è la relazione tra il ragazzino Reynaldo e l’adulto, Carlos Vargas, ex guardia giurata che cerca di educare il più giovane e si trasforma in un mentore, assume un ruolo molto paterno. Questo è particolarmente interessante perché viviamo, così dicono i sociologi, in un’epoca senza padri.

“Penso che quello che dice a proposito dell’assenza dei padri sia una caratteristica dell’attuale capitalismo e di questo sistema di innovazione costante che ci porta a svalutare l’esperienza. Da questo dipendono la rottura sociale e la rottura generazionale. Carlos, quando va in pensione, si trasforma in qualcuno di inutile per la società e per se stesso. Tutto ciò che sa, tutto ciò che ha imparato in strada e frequentando il mondo della strada, diventa qualcosa di obsoleto perché non c’è nessuno a cui trasmetterlo. Per questo la comparsa di Rey gli permette di tornare a vivere, perché ora sì che c’è qualcuno a cui può trasmettere l’insegnamento, qualcosa di profondamente irrelato a ciò che è lui. Anche se non stiamo parlando di un’educazione ‘umanista’, questo è chiaro”. 

Lei è laureato in Psicologia ed è un dato affascinante perché nel film i tratti psicologici dei personaggi sono ben sviluppati, anche se mai in modo gratuito o con eccessive derive psicologistiche. Crede che il suo percorso universitario abbia inciso in qualche misura sulla sua ricerca cinematografica?

“Credo di sì. Il comune denominatore tra cinema e psicologia è l’interesse per il mistero del comportamento umano. È la volontà di capire perché le persone fanno quel che fanno, perché si relazionano in un certo modo. Il cinema permette di esplorare questi aspetti in un modo singolare, speciale. Se penso al caso di Rey, mi affascina la possibilità di mettere in scena situazioni complesse, molte volte improbabili nella realtà, per vedere come funzionano nell’universo parallelo della finzione”. 

A livello estetico, il film è molto rigoroso, sobrio, quasi ‘classico’. Come ha affrontato le sfide formali, le questioni stilistiche che si impongono al lavoro registico?

“Siccome il film è stato filmato nei tempi televisivi, ossia velocissimi, molte scene per giorno e poco tempo per terminarle, ho scelto di concentrarmi sulla recitazione. Abbiamo provato a lungo con gli attori in modo che sapessero fin da subito quello che cercavo una volta sul set. Credo che la mia esperienza di montatore [Esteves ha lavorato, tra gli altri, per Pablo Trapero, N. d. R.] abbia aiutato perché riuscivo a prevedere quel che sarebbe stato importante da conseguire in ogni scena. A livello di fotografia, ci siamo ispirati molto al cinema nordamericano degli anni ’50 e mi sembra che sia stata una buona decisione. Jean Pierre Melville è stato uno dei principali riferimenti, soprattutto per la sobrietà e il minimalismo. È stato, credo, il modo giusto d’avvicinarmi a questo mondo, alle realtà delinquenziali che, ovviamente, non frequento tutti i giorni”. 

L’Educación di Rey è il suo primo lungometraggio. Vorrebbe replicare? Sta lavorando a qualche altra cosa al momento e, nel caso, cosa può anticiparci?

“Proprio in questi giorni sto terminando la sceneggiatura del mio prossimo lungometraggio. Anche questo è ambientato a Mendoza, però in alta montagna, quasi al confine con il Cile. È di nuovo un poliziesco, la storia di due fratelli, però contiene un elemento fantastico al suo interno. Mi ci è voluto molto tempo per scrivere la sceneggiatura, ma sono entusiasta. Mi auguro davvero non manchi molto perché possa cominciare a girare”.

L’educazione di Rey arriverà nei cinema il prossimo 4 aprile.