Soluzione estrema: il finale del film con Andy Garcia e Michael Keaton

In Soluzione Estrema, uno straordinario Michael Keaton interpreta uno spietato sociopatico da cui dipende la vita di un bambino.

Soluzione Estrema, titolo originale Desperate Measures, è un thriller del 1998 con Michael Keaton, Andy García, Marcia Gay Harden e Brian Cox, diretto da Barbet Schroeder (Formula per un delitto; Il Mistero Von Bulow). Girato nella Baia di San Francisco il film è stato un vero flop sia da parte della critica che dei guadagni, ma nonostante questo, Andy García ha vinto un ALMA Award come “Miglior attore in un lungometraggio in un ruolo crossover”.

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In Soluzione Estrema, l’agente di polizia di San Francisco Frank Conner (Andy Garcia) ha un figlio gravemente malato che necessita, al più presto, di un donatore di midollo osseo per poter guarire dalla leucemia. In preda alla disperazione, irrompe nel quartier generale dell’FBI e trova una corrispondenza perfetta per salvare il bambino, ma sfortunatamente, l’uomo che potrebbe salvare la vita al figlio è Peter McCabe (Michael Keaton), un sociopatico che sta scontando l’ergastolo per omicidio. All’inizio McCabe mostra poco interesse per la situazione di Conner, ma in seguito trova l’opportunità di trasformare la situazione a proprio vantaggio e escogita una trama per fuggire. Una volta in ospedale, McCabe riesce a scappare, innescando una fuga rocambolesca: una sorta di caccia gatto col topo che termina su un ponte, dal quale McCabe minaccia di gettarsi.

Soluzione estrema: la spiegazione del finale del film

Un film che può piacere o non piacere, ma che – senza dubbio – riesce a tenere lo spettatore incollato alla poltrona. Andy Garcia è perfetto nel ruolo del Detective frustrato, con quel peso sulle spalle, un figlio gravemente malato, per cui ogni padre farebbe qualsiasi cosa pur di salvargli la vita, anche andare contro la legge. Probabilmente il popolo americano è più avvezzo di noi a certe dinamiche, ed è per questo che – forse – la pellicola non ha sortito l’effetto desiderato, ciò non toglie che si tratti un bel thriller, condito da un Michael Keaton che, in quanto a bravura, non si smentisce mai. Lui, attore estremamente versatile che è passato dall’essere lo “spiritello porcello” più famoso di Hollywood, all’unico vero e autentico Batman, qui è la cattiveria fatta persona. Una recitazione impeccabile la sua, che sotterra tutte le altre e nella scena finale si evince tutta.

Cinico e distaccato, il personaggio interpretato da Keaton è subdolo e privo di qualsiasi emozione o sentimento: non si ferma nemmeno davanti ad un padre evidentemente disperato e soprattutto davanti ad un bambino in pericolo di vita. La voglia di fuggire, ma non per tornare libero, ma per continuare a compiere i propri efferati delitti da sociopatico, è molto più forte di qualsiasi senso di responsabilità. McCabe è uno che non si arrende, piuttosto pur di non “accontentare” gli altri sarebbe disposto a suicidarsi, rendendosi ancor più crudele di quello che già è. Quella battuta rivolta al poliziotto che lo piantona in ospedale, proprio nell’ultima scena, lascia intendere che una preda non è tale finché non è morta. Una cattiveria senza limiti che infierisce su tutto e tutti, persino i cani poliziotto temono questo prigioniero che non ha nessun scrupolo, ma che soprattutto non conosce la parola “redimersi”. Potrebbe salvare la propria anima, grazie all’intervento del figlio di Conner, ma invece è proprio quel giorno in ospedale in cui McCabe tornerà ad essere libero, solo ed esclusivamente alle proprie condizioni, ma soprattutto usando mezzi  – una pistola – rubata in pochi attimi al poliziotto che lo piantona e denigra nella sua stanza d’ospedale.

Ma non bisogna assolutamente lasciarsi convincere che McCabe sia il più forte, anzi, c’è una frase di  Gandhi che fa proprio al caso suo: “Il debole non può mai perdonare. Il perdono è un attributo del forte” e lui, mentre sfreccia nuovamente libero per strade di Los Angeles, non ha perdonato ancora nessuno, nemmeno se stesso.