Shakespeare e cinema: dall’Amleto di Olivier al Macbeth di Polanski

L’eternalità della produzione shakespeariana possiede una modernità e una mimesi così dinamica e dissacrante che le sue verità non potrebbero invecchiare in nessun modo. Il cinema si è sempre misurato con le opere di Shakespeare, ha saputo delinearle, si è inchinato ad un tipo di letteratura e di teatralità non sempre facilmente riproducibile attraverso le giuste scenografie, quelle capaci di rendere giustizia al respiro che possiedono e possedevano le parole di quello che potremmo definire il più grande autore di tutti i tempi. Certo è che rendere un dramma, che ha nelle sue vene tracce di teatro puro e semplice, esemplifica la sua resa su di un palco, poiché si troverà ad avere quella luce e quella spontaneità che il cinema deve ricreare dall’inizio alla fine, come se un fiore non avesse la possibilità di aprirsi alla luce del giorno e si trovi costretto a schiudersi al calore di una serra. L’artificio è visibile, apprezzabile ma non sempre spendibile.

Non si può parlare del dotto William senza mai porlo in sovrapposizione, quasi epitetica, al più grande dramma mai scritto nella storia della letteratura: Amleto. I film che hanno tentato di adattare quest’opera sono firmati da artisti del calibro di Laurence Olivier, Grigorij Kozincev, Franco Zeffirelli e Carmelo Bene.

Il primo è un’ottima trasposizione del 1948, di cui Olivier è protagonista e regista.  Egli fece buon uso del bianco e nero, trattenendo in sé un’invidiabile ed auspicabile fedeltà al testo originale, che con toni espressionisti e dinamiche tutte volte al cupo mondo interiore ed esteriore che avvolgeva il principe di Danimarca. Il regista riuscì a consolidare la sua intuitiva genialità nel rileggere Shakespeare, impreziosendo il suo tragitto con quattro Oscar tra cui migliori film e miglior attore protagonista.

Nel 1962 uscì nelle sale una versione sovietica del dramma in questione, che non diede il giusto slancio alle commiserazioni e ai grovigli interiori, sacrificando quelle verità assolute che determinavano il dramma, con l’avanguardia politica che dettava i suoi intenti.  All’interno di queste scene si ripercuote una naturalità smodata, che smorza i tormenti e i soliloqui, si predilige un’attinenza letterale che era nella testa del regista, tesa ad un ritorno all’esprit du temp che voleva Amleto come simbolo di decadenza e di forza, di verità e disillusione.

Shakespeare

Decisamente differente è la versione del 1990, interpretata da Mel Gibson, Glenn Close e Helena Bonham Carter. Attori del genere spingerebbero a credere che ci sia una contrarietà semantica di fondo tra un personaggio come Amleto e una fisicità tutt’altro che cupa appartenente al suo riflesso filmico, ma il regista fiorentino riuscì laddove altri, presi dalla narrazione autodiegetica, cadevano per mancanza di oggettività.

Infine è la volta di Carmelo Bene, che nel ’72 lascia convergere nella stessa pièce diversi testi tra cui uno di Laforgue e scritti di Gozzano. Non è un classico rifacimento letterario ma più un’indagine sulla questione tutta amletiana del ruolo che ha un attore, costretto da un lato da una immobilità dell’azione e dall’altro nel nulla che rimane se non puoi sottrarti a quella rappresentazione che non ha punti sui quali fissarsi realmente.

Ritornando al maestro Laurence Olivier, prima ancora di Amleto si dedicò nel 1944 all’Enrico V, che è da lui nello stesso tempo diretto ed interpretato. Il periodo storico fu determinante e nulla fu lasciato al caso. Mentre la follia nazista e fascista contribuiva allo sfacelo dell’occidente, il registra venne adombrato dal peso di dover riportare in auge un dipinto bellico che non dovesse egemonizzare solo i conflitti e la loro causalità, ma che potesse essere più pacato, senza dover rammentare l’orrore di una guerra, ma che ponesse al centro della tela un nuovo eroe da rivendicare e un nuovo nemico da sconfiggere. Enrico è carico di vanagloria, un condottiero che si andava ad inserire nella fragilità del suo rivale, Il Delfino di Francia, che lo affronta con una suggestiva armata e non lascia alcun dubbio sull’esito della battaglia.

Nel 1952 è la volta di Orson Welles, il quale decide di confrontarsi con la trama dell’Otello. Il regista comprende bene che riproducibilità e attinenza non sempre possono andare d’accordo, quindi lascia che la pellicola inizi con i funerali del Moro di Venezia e della sua Desdemona, scena che l’autore inglese aveva sottratto alla rappresentazione e che andava immaginata semplicemente come una conseguenza. Uniche e metonimiche sono le soggettive e le inquadrature che si susseguono nell’arco della pellicola, le quali sconvolgono in qualche modo la versione originale anche nel suo senso, ponendo allo spettatore da un lato gli occhi di Iago che con l’infamia e la furbizia trovò la sua condanna per i malefatti e dall’altro il corpo di Desdemona, giocando con ciò che la storia narra naturalmente e ciò che sono i giudizi di chi osserva.

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Epica ed indimenticabile è la tragedia di Romeo e Giulietta diretta nel 1968 da Zeffirelli,  che ha solo grandi punti di forza, innumerevoli punti di forza, in primis le musiche di Nino Rota ad allietare e decorare con classe, le scenografie e i costumi che non hanno eguali in vigore, attinenza e fastosità. Forse la componente che rese questo film il più riuscito fino ad oggi del dramma shakespeariano sta proprio nella scelta degli attori, molto giovani e che per quanto l’anno di uscita facesse ben sperare, si dovettero raffrontare con scene di nudo da un lato e con un pilastro della letteratura mondiale che poteva solo terrorizzare per l’infinita notorietà che possedeva e possiede. Ma tutto sommato si destreggiano perfettamente e i costumi sui loro corpi inerti e acerbi trasmettono quel rinnovamento giusto che ridestava il dramma dal suo torpore reverenziale che molti ebbero il timore di dissacrare.

Esempio assolutamente da ricordare del panorama italico è Che cosa sono le nuvole? della pellicola in sei atti Capriccio all’italiana (1968), in cui Totò è Iago. Pasolini rivendica una sua voce nello spazio che intercorre tra cinema, teatro e interazione tra essi. Le scene si ostacolano in un moto vorticoso che non concede alla storia il suo normale andamento poiché gli attori, come per Carmelo Bene, ritrovano una loro lucidità, il senso di ciò che accade ai personaggi che stanno interpretando così da criticarli, distanziarsene e scontrandosi talvolta con se stessi e il pubblico che assiste alla rappresentazione.

Il Macbeth di Shakespeare in tre film ineguagliabili, che sottendono sofferenze, illusioni e solitudini differenti ma reali

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Ed è qui che si apre il triello filmico, un’epopea tutta macbethiana che vede come maggiori esseri visionari Welles, Kurosawa e Polanski. Se da un lato possiamo affermare che ognuno a suo modo ha concepito un’idealizzazione dell’eroe decadente quale è Macbeth, dall’altro si può decretare che nessuno ha saputo definire ed esibire con aderenza quelle che sono le atmosfere del dramma, cosa che può essere sia un demerito che un vezzo. Kurosawa nel 1957 propone una sua versione quasi anaffettiva, i personaggi sono così ben mascherati che non lasciano intravedere emozioni, sono impenetrabili, e non è l’unica cosa che viene a mancare nella storia: assieme a queste mancanze il regista giapponese elide ogni sorta di discorso, ogni dialogo. Ed è anche il più teatrale di tutti, perché il suo cinema viene sporcato e rinvigorito dai toni elisabettiani che esplodono quando è la guerra che ne determina gli umori; i personaggi hanno una vita propria nonostante l’inquadratura filmica, questo colpisce per credibilità e bravura: l’anima del dramma teatrale è analiticamente rispettata.

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Tutt’altro sapore ha il film di Welles. Nel 1948 dà vita al proprio Macbeth, diventato per lui una specie di ossessione a causa degli enormi problemi finanziari legati alla sua realizzazione. Si può dire liberamente che ha una certa propensione per lo spettacolo, per lo sfarzo ma qui si trincera di una sottrazione visiva molto evidente: la forza della sua trasposizione sta nelle parole, nell’impatto emotivo, nell’analisi psicologica che attua sulla caducità di un eroe che è anche un debole, un rozzo, manipolabile ed ingenuo. “Il teatro è per il pubblico, il film è per te“, dichiarò W. Questo perché il regista in questione fu abile nel saper distinguere teatralità e resa cinematografica soprattutto con le ombre e i giochi di luce, si può dire che Welles dirigeva le sue pellicole con la luce che c’era e si sottraeva, per creare un carattere emotivo che a teatro non si aveva possibilità di ricostruire.

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Ultimo ma non meno importante il film di Polanski. Quest’ultimo, nel 1971, prende una decisione che smorza ogni carattere magico dalla storia del Macbeth, interpretato questa volta per il suo essere prima di tutto un uomo. Il protagonista noto dell’opera di Shakespeare sembra perdere totalmente la sua aurea eroica. Il regista rivede quella solitudine insita del personaggio attraverso riprese ed espedienti sonori che suscitano nello spettatore un peregrinare tra l’infausta condizione precaria del protagonista e una certa macabra tensione che il regista fa riecheggiare mostrando con più insistenza le streghe, i riti, il sangue e rievocazioni violente degne di un horror, ma che conferiscono al dramma quella variazione di cui aveva bisogno dopo tanto rimuginare nel metastorico.

Tre film ineguagliabili, che sottendono sofferenze, illusioni e solitudini differenti ma reali. Non resta che visionare l’ultimo Macbeth, il nuovo film di Justin Kurzel con protagonisti Michael Fassbender e Marion Cotillard, disponibile nelle sale a partire da oggi.