Jane Birkin e Serge Gainsbourg: storia di un amore sopravvissuto al suo disastro 

Jane Birkin (1946-2023) nel film che le dedicò Agnès Varda di sé diceva di non avere né segni né doni particolari. Eppure, possedeva la qualità delle Muse: ispirare il desiderio. Di creare o di fare anche solo di sé stessi un’opera d’arte. Fu così anche per Serge Gainsbourg, al quale la legò un amore che si alimentava delle sue imperfezioni.

Nell’intervista rilasciata da Jane Birkin a Sofia Mattioli, per La Stampa, il 28 dicembre 2020, e oggi riproposta sul cartaceo e online, l’attrice e cantante britannica naturalizzata francese Jane Birkin, trovata senza vita nel suo appartamento parigino, ieri, 16 luglio, all’età di 76 anni, diceva che “tutto l’amore passionale e romantico è un amore passato. La maggior parte delle canzoni è sull’amore disatteso non per colpa dell’altra persona ma perché si chiede troppo al sentimento. C’è spesso la tendenza a vederlo come totalizzante, assoluto. Il vero amore, invece, è desiderare che l’altro sia indipendente”. Una considerazione saggia e demitizzante che non ci saremmo aspettati da un’icona, tra film, canzone e moda, del Novecento artistico. Un’icona che, inevitabilmente, nel mito edificato ben prima della sua morte, quasi in corso di esistenza, accostiamo anche alle sue storie d’amore. A una, in particolare.

Dei tre uomini di Jane Birkin, solo Serge Gainbsourg ha condiviso con lei una titanica mitologia di coppia 

Gli uomini importanti nella vita di Jane Birkin sono stati tre, i padri delle sue figlie Kate (1967-2013), Charlotte e Lou, ma si può affermare senza esitazioni che uno soltanto, Serge Gainsbourg – figlio di emigrati ebrei-ucraini, erede della tradizione ‘maledetta’ della lirica francese, autoproclamato “poeta russo”, instancabile sperimentatore nella musica e nel cinema –, condivide con lei l’iconografia leggendaria dell’amour fou che ha saputo farsi generativo e che ha lasciato dietro di sé non le macerie della disillusione, ma un’eredità tanto estetica quanto morale

Esempio ne è la stessa figlia della coppia, Charlotte, nata nel luglio del 1971, incarnazione di una combinazione perfetta di geni e di stili: dalla madre, ha ereditato la fisicità nervosa, longilinea e ossuta, l’eleganza della sottrazione e il rifiuto di alterare con artifici – gli eccessi cosmetici, gli orpelli vistosi, le micro e macrodeformazioni della medicina estetica – il proprio aspetto; dal padre, un’idea di bellezza emancipata dall’armonia dei tratti e uno sguardo fondo, quasi languido, indeciso tra malinconia e vitalità, eppure ostinatamente cavo e ricettivo. Da entrambi, ha preso e ancor più singolarmente nobilitato la predisposizione al discorso artistico, la serietà nell’amministrare un dono datole in parte dalla natura, in parte ricevuto come legato famigliare e ambientale. 

A lei si deve, tra l’altro, quello che oggi, all’indomani della scomparsa, sembra essere il testamento di sua madre, ritratta in un documentario dell’anno scorso dal titolo Jane par Charlotte, un’opera che stupisce per la delicatezza formale e, insieme, per l’assenza di compromessi o di sconti nel restituire la complessità di una figura tanto capitale nella Storia delle arti e, soprattutto, nella vita della figlia. Dal confronto con Charlotte, di Jane Birkin emergono sia le qualità umane sia le tante fragilità: le dipendenze dai sonniferi e dall’alcol, la malattia (“un cancro non doloroso”), i sensi di colpa per le proprie mancanze di madre, inevitabilmente ritenute remote cause del suicidio della primogenita Kate, gettatasi dal quarto piano del suo appartamento parigino nel 2013. 

L’incontro nel 1968: a lei, la prima volta, lui sembrò “orrendo, arrogante e snob”; lui invece la ‘conosceva’ già 

Jane Birkin cinematographe.it
Jane Birkin e Serge Gainsbourg in una scena di ‘Slogan’, il film che li fece incontrare nel 1968.

Jane Birkin incontrò Serge Gainsbourg per la prima volta nel 1968 quando, reduce dal successo  ‘scandaloso’ – aveva accettato, infatti, di mostrarsi a seno nudo in una scena orgiastica – di Blow-up di Antonioni, viene scritturata per la parte dell’inglese Evelyne Nicholson in Slogan, il film in cui Gainsbourg era stato scelto per interpretare un maturo pubblicitario francese in visita a Venezia per ritirare un premio, viaggio durante il quale avrebbe cominciato una relazione extraconiugale con la giovane britannica. Entrambi stavano attraversando un periodo di crisi personale: Jane Birkin aveva appena rotto con il primo marito, il compositore John Barry, in fuga dal tetto coniugale con la migliore amica di lei; Serge Gainsbourg era stato da poco scaricato da Brigitte Bardot che aveva messo termine a una passione durata 80 giorni tornando a casa dal marito tradito.

A Jane Birkin, Serge Gainsbourg non piacque subito, anzi in un primo momento lo detestò: i biografi sono concordi nel riferire un commento che la giovane attrice consegnò al fratello regista Andrew Birkin, secondo il quale la prima impressione che ebbe di lui fu quella di “un uomo orrendo, arrogante e snob”. Serge Gainsbourg, invece, è come se la conoscesse da tempo: incontrarla fu, per lui, ritrovarla. Come ebbe a confessare in seguito, infatti, Gainsbourg già da tempo dipingeva dei quadri i cui soggetti erano delle donne “androgine” che somigliavano molto a Jane Birkin, erano lei prima di lei. Quasi che la donna che avrebbe amato per tanto tempo esistesse già nel suo inconscio. 

La loro storia d’amore lunga dodici anni e frastagliata da numerose turbolenze. Per la terza figlia di Jane Birkin, avuta dal regista Jacques Doillon, Gainsbourg fu “Papà Due”

A dispetto delle antipatie iniziali di lei, la loro relazione d’amore fu lunga dodici anni, anche se interrotta da frequenti separazioni. Gainsbourg non intendeva rinunciare ai suoi vizi soprattutto alcolici né tantomeno alle sue intemperanze colleriche; Birkin sentiva, d’altra parte, la fatica di dover sempre trovare espedienti eclatanti per interessarlo, per trattenerlo a sé: rimane leggendario il suo tuffo nella Senna per farsi perdonare da lui un litigio un po’ troppo istrionico finito a torte in faccia. Nell’introduzione alla versione editoriale dei suoi diari, Jane Birkin confessa che avrebbe preferito “avere reazioni più mature o assennate di quelle che ho avuto”, ma così non è andata. Forse, aggiungendo a “reazioni” una l in più, il senso del rammarico non cambierebbe più di tanto. 

Quando si è stancata degli eccessi di e con Serge, si è legata subito al regista francese Jacques Doillon con il quale ha avuto, dopo poco, la sua terza figlia, Lou. La separazione da Gainsbourg era ancora fresca e quest’ultimo non prese bene la notizia. Tuttavia, quando la piccola venne al mondo, le fece recapitare dei regali, firmandosi, nel biglietto d’accompagnamento, “Papà Due”. 

Il ‘sacrificio’ della sua scimmietta perché vegliasse Serge Gainsbourg nel suo ultimo viaggio

Nei dieci anni successivi, Gainsbourg, che, a causa delle sue dipendenze, aveva perso la vista e soffriva di cuore, rimase vicino a Jane personalmente e professionalmente. La sua vicinanza si estese anche alle due figlie, oltre a Charlotte, che Birkin aveva avuto dalla relazione precedente e da quella successiva alla loro. Nel 1983, lui scrisse il primo album da solista di lei, Baby Alone in Babylone: nel tempo, sarebbe diventato disco d’oro. Alla morte di Gainsbourg, avvenuta nel 1991, Jane Birkin ne vegliò il cadavere per tre giorni. In seguito, assunse il ruolo di custode della sua memoria e, in certa misura, anche di divulgatrice del suo lascito letterario. Alla giornalista e saggista Jennifer Radulovic, in una delle sue ultime interviste, già malata, Jane Birkin disse: “So già che, quando morirò, tutti i telegiornali del mondo faranno sentire la canzone di Serge Gainsbourg”. Era consapevole che il suo nome era e sarebbe stato sempre indissolubilmente legato al nome di lui. Non le importava. 

La canzone a cui alludeva, in quella circostanza, era, naturalmente, Je t’aime… moi non plus (1969), bandita dalle radio e scomunicata dal Papa per i gemiti che conteneva: la riproduzione sonora di un amplesso. A una voce femminile che asseriva “Je t’aime” (“Ti amo“), una voce maschile rispondeva “Moi non plus” (“Neanche io“), in un fraintendimento volontario e ironico che intendeva smascherare sottilmente quella che lui riteneva fosse una menzogna da parte di lei. Serge Gainsbourg faceva cantare le donne della sua vita, e fece cantare molto anche colei che lo fu più delle altre. Voleva, in quel cantato-parlato che subentrava al canto a gola spiegata della tradizione melodica del pop, che la sua bocca aderisse al microfono, restasse come incollata ad esso, così da registrare bene anche i sospiri. Era un uomo che sapeva dare e togliere la voce. Nel bene e nel male che questa intermittenza implica. A lui, Jane Birkin cedette il suo oggetto più caro, un ricordo della sua infanzia: una scimmietta di pezza di nome Munkey che era stata la prima (e unica) confidente della sua vita. La lasciò cadere nella bara dove Serge giaceva, perché lo accompagnasse nell’aldilà “come un faraone”.