Romy Schneider: vita, morte e sciagure di una diva triste

Romy Schneider prima di essere un’attrice cortese, una madre, una moglie, era una donna. Ma la domanda molto kantiana che mi sono posta prima di una tale affermazione è: cosa rende donna, una donna? Le scelte? I rimpianti? Le azioni? Lei lo fu nel senso più eretico del termine. Il suo spirito oscillava tra la menzogna e il baratro. La sua vita può essere riletta nella melodia”Non, je regrette rien” di Edith Piaf; lasciò nei suoi passi la consapevolezza che i suoi fallimenti, i suoi limiti non dovevano avere potere disturbativo del suo ipotetico ricordo, ma condizione necessaria del suo intercedere: un piano sequenza infinito che sfumava dalla sua vita fino ad intersecarsi al cinema.

Le sue pellicole sono disseminate di personaggi da i più sottili ai più complessi; ma anche un filo di lana, il più leggero e mite saprebbe aggrovigliarsi su sé stesso se qualcosa lo smuovesse dal suo stato di quiete. Il drappeggio in questione è quello dei pizzi e merletti di una principessa, uno dei suoi primi ruoli che la rese fatalmente celebre da riuscire a percepirne l’eco ancora oggi. Sissi del ’55, assieme a La giovane imperatrice (’56) e Il destino di un’imperatrice (’57) formano la trilogia sulla vita di Elisabetta di Baviera. Nonostante le trasposizioni filmiche riportassero in vita quel suo carattere poco assoggettato alle buone maniere e la brillante atipicità dei suoi pensieri, ciò non rese giustizia alla figura della lottatrice errante quale era, con una tale sensibilità verso i disagi del suo popolo da desiderare un regicidio dopo l’altro, andando non solo contro la sua famiglia ma la sua stessa vita, che troverà l’oblio per mano dell’anarchico Lucheni. Ma la Schneider non era all’oscuro dall’impugnare la fiaccola della rivolta: lei stessa si pose in prima linea per la legalizzazione dell’aborto, il quale era vietatissimo nella Germania del ’71. Ma più di tutto svincolava dalle convinzioni più grigie armonizzandole con il senno di chi conosce il tempo.

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Non temeva le lancette e il suo incalzare vorticoso, nemmeno l’epilogo che avrebbe avuto il suo corpo, anzi, la consapevolezza era tale da credere che la bellezza, la sua bellezza era un dono che andava restituito, prima o poi. Sintomatico pensiero, poiché Dino Risi nel ’81 le ricamò un ruolo ad hoc: Fantasma d’amore. Mastroianni, suo partner filmico, è il filtro della sua figura: lei esiste solo in sua funzione, dei suoi pensieri, dei suoi ricordi. Noi non abbiamo la possibilità di vederla. Riprende vita grazie alle sue ossessioni, i ricordi superano qualsiasi verità, spodestandone il senso e riportando tutto all’origine, allo spleen dell’abbandono. A Nino (Mastroianni) quelle cose accadevano, come le nuvole che si addensano. Gli accadevano nella mente, ma non per questo erano irreali o limitative. Attuò l’inconsapevole scelta di conferirgli vita propria. Si perdeva negli incroci, nei quadrivi mentali. Solo dopo arrivò a ritrovare la strada, nel mondo reale, a camminarla, a sentirne lo spessore, l’odore inconfondibile. Le sue strade avevano un sapore, solo che quello di Anna (Schneider) era più forte.

Romy Schneider – una vera diva maledetta

É proprio vero. Nel vuoto si moltiplicano le ossessioni, esse riescono a sorpassare ogni logica, ogni empirismo, divenendo prodotto e conseguenza dell’ego. Ciò accade nel film Boccaccio ’70, un quadrilatero che si scompone tra novelle e racconti, in cui le viene affidato il riverbero di una figurante borghese tediata e lesa dalla sua stessa malinconia. Un film in quattro atti, ciascuno diretto da Fellini, Monicelli, Visconti e De Sica.Il lavoro” è la scena in cui la Schneider, diretta da Visconti, si compie tra le righe di un racconto di Maupassant, “Au bord du lit” e dimostra come la vita matrimoniale altro non è che un contratto mal celato e confusamente riservato al sublimarsi dell’amore. Nel quale la donna non ha la possibilità di ritrovarsi, istruita unicamente ad essere emotivamente contingente e sessualmente necessaria. Ma la donna, come l’uomo, ha un linguaggio, un’azione e se non si compie manca di totalità. Il futuro rende l’uomo inespresso, finché siamo in vita manchiamo totalmente di senso. Morire rimane l’unico modo che abbiamo affinché la nostra vita si compia.

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Io non so se la Schneider nei suoi dolori preferì affogare, ingoiare sangue rappreso, certo è che il mondo le faceva male come se avesse delle spine in ogni punto del suo corpo, cavità incolmabili, bruciature di sigarette sotto i riflettori in fila per l’analisi. Lei non potrà mai più mancare di senso e l’espressione di ciò che è stata, è visibile, quasi immediata. Lei voleva vivere, e voleva fare film. Ma non riuscì mai a trovare via d’uscita da questa contraddizione. Non riuscì mai a scegliere perché “mi sono visto di spalle che partivo” è una cosa che possono sopportare solo in pochi.