Roman Polanski e il cinema delle ossessioni

Quello di Roman Polanski è il cinema che, nei tempi recenti, meglio ha saputo esplorare la psiche umana. Ne ripercorriamo i punti salienti, cercando di analizzare i personaggi più disturbanti (e disturbati) del suo cinema.

Scomponendo attentamente la filmografia di Roman Polanski (nato Rajmund Roman Thierry Polański, a Parigi, il 18 agosto 1933) viene naturale chiedersi come sia possibile, per un solo autore, esprimere in maniera fedele così tanti punti di vista e così tante esperienze nell’arco di una sola carriera. Sarebbe facile, ma errato, attribuire i meriti di questa capacità agli eventi nefasti che costellano un’esistenza purtroppo ricca di tragedie di portata (mediatica, ma soprattutto personale) colossale. Sebbene, per esempio, il Macbeth di Polanski sia chiaramente figlio di un trauma, quello a seguito dell’assassinio di Sharon Tate, è da notare come risulti piuttosto difficile stabilire una sistematica ricorrenza di questo tipo di influenza sul lavoro dell’artista. Anzi, opere come The Tragedy of Macbeth (significativo il “tragedy” nel titolo originale) meglio ci aiutano a comprendere il modo in cui il vissuto del regista e autore polacco influisce sulla sua opera: se si fa eccezione per Il Pianista – sappiamo che Polanski visse parte della sua infanzia all’interno di un campo di concentramento a Cracovia – questo tipo di comunicazione tra realtà e fiction solo parzialmente può essere riscontrata sul livello tematico-concettuale, e sembra piuttosto difficile riconoscere un vero e proprio fil rouge all’interno di una filmografia così eterogenea, multiforme e stratificata.

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Le ossessioni nei film di Roman Polanski

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Il già citato Macbeth si muove attorno al tema dell’omicidio e si focalizza sull’assoluta supremazia della causalità all’interno della spirale di sangue che viene generata. Non solo: Macbeth è anche una profonda riflessione sulla totale inadeguatezza degli uomini comuni nelle posizioni di potere, mortali nell’affannosa ricerca dell’immortalità attraverso la discendenza diretta: si perisce per volontà del caso, in balia della destabilizzante assenza di consequenzialità logica fra gli eventi e del controllo su di essi. A proposito di quanto si diceva sulla difficoltà di riscontrare un nesso tematico-concettuale fra un’opera e l’altra, l’omicidio non sarà mai più così centrale per Polanski. Tuttavia, grazie soprattutto alla molteplicità di sottotemi con cui il regista completa e valorizza l’opera, si può certamente notare una ripetizione degli stessi in film precedenti e a seguire. Gli echi delle turbe, delle nevrosi, delle afflizioni dei personaggi contribuiscono a far sì, insieme a una regia sempre elegante ed estremamente funzionale – la scelta delle giuste lenti, a seconda del film, è efficiente nel ricreare le giuste atmosfere – che il lavoro di Roman Polanski sia sempre riconoscibile e chiaramente distinto da quello di altri autori e registi, tanto sul piano registico quando su quello intellettuale.

Roman Polanski: la paranoia e l’ossessione come cardine della sua filmografia

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Polanski fornisce un ritratto anomalo del re scozzese, che nelle vesti di uomo impotente e inerme trova la rappresentazione perfetta di sé: si tratta di un protagonista investito della più preminente carica fra tutte, ma privo di potere effettivo, preda dei sensi di colpa e degli spettri insanguinati del passato. La paranoia e l’ossessione sono elementi cardine del cinema polanskiano a partire già dal precedente e profondamente discorde Rosemary’s Baby (1968), considerato all’unanimità tra i massimi esponenti dell’horror e, al contempo, un’opera che tende verso l’allontanamento dagli stilemi del genere. Rosemary’s Baby persiste su parte del discorso di Repulsion (1965) e anticipa quello che verrà con L’inquilino del terzo piano (1976), incastrandosi a metà tra due film che in comune hanno così tanto, per quanto concerne sia forma che contenuto, da costituire una vera e propria trilogia.

Nella cosiddetta Trilogia dell’appartamento, infatti, i protagonisti vengono progressivamente isolati all’interno di mura domestiche in preda alle proprie psicosi, generate da fattori differenti a seconda del personaggio principale. In Repulsion, Catherine Deneuve incarna la terribile Carole Ledoux, donna tormentata dall’incubo della sessualità e dalle allucinazioni date dalla negazione di essa. La protagonista prova repulsione nei confronti del sesso maschile a tal punto da diventarne ossessionata quanto più questo si presenta, e le visioni in cui la malattia mentale prorompe sono tutte simboliche: man mano che la casa colleziona i cadaveri delle vittime, la stessa sembra farli rivivere negli abbagli ad occhi aperti della donna insieme alla materializzazione della fobia sessuale, che continua a palesarsi tramite allegorici squarci sui muri che si aprono quanto più si tenta di ostruirli.

Roman Polanski e il senso di persecuzione in Rosemary’s Baby

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In Rosemary’s Baby, tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin, Rosemary (Mia Farrow) e Guy Woodhouse cercano appartamento nella città di New York. Lui attore, lei timida ragazza di campagna. I due vengono invitati dai vicini, la coppia Castevet, per una cena insieme. Dal momento in cui i Castevet cominciano a essere molto presenti nella vita dei due, e soprattutto dal momento in cui Rosemary comincia una gravidanza (la cui data viene stabilita dal marito, interpretato da John Cassavetes), la donna comincia a temere per la sua salute e per la sua vita. Tutto comincia a inserirsi nel disegno mentale di Rosemary: la strana fissazione dei vicini per la stregoneria, di cui custodiscono diversi libri; l’assenza sempre più insostenibile del marito che riesce a trovare lavoro, nonostante la presenza di un altro attore scelto per la parte; l’incubo, ancora una volta sessuale, in cui la donna sogna di essere posseduta da strani esseri mostruosi, dopo che Castevet e Guy la consegnano a loro. Da qui il senso di persecuzione della protagonista ha inizio, a seguito della visione onirica e di alcune ferite comparse sulla sua schiena il mattino seguente: le spiegazioni di Guy non bastano perché inquietanti, e Rosemary si convince di essere perseguitata dalla setta dei Castevet. Stavolta, a differenza di Repulsion (in cui è resa palese la psicosi), Polanski gioca con il genere e il momento della rivelazione viene rimandato continuamente fino a scomparire del tutto. Il confine fra realtà e immaginazione è sfumato e le idee della protagonista riescono a tramutarsi nelle idee dello spettatore stesso, soprattutto se è il background di matrice cattolica a essere condiviso con quello della donna. A metà fra il pensiero magico e la nevrosi vera e propria, Polanski descrive una rapida discesa negli inferi dove ogni paura trova concretizzazione in uno schema privo di nesso logico, perché forse nato dalla proiezione mentale di Rosemary.

Lo sdoppiamento di personalità in L’inquilino del terzo piano

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Una riflessione analoga viene proposta dal regista grazie a L’inquilino del terzo piano, tratto dal romanzo di Roland Topor, Le Locataire Chimérique. Trelkovsky (polacco intepretato da Polanski stesso) si trasferisce in un piccolo appartamento di Parigi lasciato disabitato dalla sua precedente inquilina, Simone Choule, che si è suicidata gettandosi dalla finestra dell’appartamento. A seguito delle angherie e delle irrazionali pretese dei vicini del condominio, il protagonista diviene vittima di una paranoia logorante che lo instrada verso un violento sdoppiamento di personalità, a causa del quale l’uomo si convince di essere Simone Choule. A differenza dell’ambiguità (comunque limitata) di Rosemary’s Baby, L’inquilino del Terzo Piano esplicita la psicosi del protagonista dal momento in cui indugia sulla sua grottesca trasformazione fisica nel sesso opposto, e in cui, nel terzo atto, palesa la totale schizofrenia tramite l’unico epilogo possibile e la rivelazione (realizzata in fase di montaggio) della natura delle allucinazioni.

La malattia mentale nei film di Roman Polanski

Se la paranoia è l’indiscusso filo conduttore della trilogia (e ricorre l’enfatizzazione dell’elemento disturbante grazie all’utilizzo del grandangolo), bisogna notare come Repulsion, Rosemary’ s Baby e L’inquilino del terzo piano si distinguano l’uno dall’altro mediante l’attenzione che l’autore riserva per le cause generanti la patologia mentale all’interno della narrazione, diverse dalla circostanza scatenante. La seconda, derivante solo dall’ambiente, in Repulsion viene attribuita alla presenza di uomini nell’appartamento della protagonista, in Rosemary’ s Baby e ne L’inquilino del terzo piano ai comportamenti dei vicini, che nel primo caso sorgono dalla differente estrazione sociale di Rosemary rispetto agli altri, mentre nel secondo dalla diversa provenienza geografica e dalla discriminazione nei confronti di Trelkovsky, che passa attraverso singoli gesti. Il delirio vero e proprio, tuttavia, non viene mai originato dagli elementi circostanti: non è mai il contesto, bensì il suo conflitto con la personalità dei protagonisti che sbriglia la follia propriamente detta. Insomma, l’ambiente con i suoi molteplici individui offre vari spunti alla personalità disturbata del cinema di Polanski, ma sono sempre i loro più subconsci e temuti complessi (spesso legati alla repressione della propria sessualità) a determinare l’esordio del delirio, localizzato nel secondo atto del film.

Roman Polanski e la circolarità del potere in film come Death and the Maiden

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Death and the Maiden (1994), tratto dall’omonima pièce teatrale di Ariel Dorfman (che ha co-scritto la sceneggiatura del film insieme a Rafael Yglesias), è ancora parzialmente legato al tema della sessualità declinata alla violenza, e degli irreversibili danni che ne conseguono, ma stavolta carica la stessa di una valenza che nelle precedenti opere il regista non aveva ancora esplorato, ossia quella di strumento di potere. Paulina Escobar (Sigourney Weaver) apre la porta di casa a suo marito, che torna per ripararsi dal temporale insieme a uno straniero, il signor Miranda. La donna riconosce nell’uomo le stesse fattezze del mostro che, quando era bambina, l’ha torturata e violentata per giorni senza che lei potesse muoversi. Nonostante Miranda neghi ripetutamente, Paulina si vendica tenendo l’uomo segregato in casa e interrogandolo, adottando sistemi violenti. Questa è la sua giustizia personale e il processo che non ha mai avuto: il sovvertimento dei ruoli e l’inevitabile circolarità del potere, che si sposta da un individuo all’altro secondo l’ironia del caso. Il monologo con cui Miranda confessa le sue colpe, espiandole, non può non alludere al vissuto personale del regista (accusato di violenza sessuale) e non costituire una sorta di espiazione per Polanski stesso, che in tal modo porge alla vittima cinematografica la possibilità di farsi carnefice e relega l’uomo alla posizione inerme di nuova vittima “nonostante il dubbio”.

Il confine tra realtà e finzione in Roman Polanski

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Alla base di Venere in Pelliccia (2013), tratto dalla pièce di David Ives, vi è lo stesso tipo di switch, ma stavolta a essere esaminati sono i ruoli di regista e attrice. Durante la preparazione dello spettacolo di Venere in Pelliccia, opera di Von Sacher-Masoch (da cui il termine, attraverso la fusione con il nome De Sade, “sadomaso”), Thomas, il regista interpretato da Matheiu Amalric, è scettico nei confronti della capacità di Vanda (Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski nella vita reale) di incarnare la raffinata e sensuale protagonista dell’opera. Man mano che il legame fra regista e attrice diventerà più saldo durante l’esplorazione del testo e dei personaggi, i due finiranno con il sostituire la realtà con la finzione: pertanto, il ruolo di manipolatore spetterà adesso allo strumento di Thomas, ossia Vanda, e che Thomas si sottometterà masochisticamente al potere seduttivo dell’attrice, che riesce a calarsi totalmente nei panni della “dea” protagonista fino a superare i confini con la realtà. Il sesso tradotto in strumento di potere è anche lo snodo principale su cui si basava, anni prima, Luna di fiele (1992), che ai rapporti carnali fra i personaggi attribuiva valenza manipolatoria soprattutto a livello psicologico, ponendo in contrapposizione il dominio e l’umiliazione nelle relazioni.

Ecco perché i film di Roman Polanski non possono avere un genere prestabilito

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Il cinema di Polanski, in pratica, è difficilmente classificabile secondo generi prestabiliti o leit-motiv concettuali che attraversino la sua filmografia in maniera diritta. Eppure, analizzando la sua opera nel complesso, ci si accorge di quanto sia estremamente coerente la ricorrenza, del tutto spontanea e quasi nemmeno ricercata, di idee, di sogni, di timori, angosce, tarli e manie che costellano le sue opere a tal punto da divenire un marchio di fabbrica: segni distintivi di un autorialità che ne fanno sicuramente uno dei più grandi cineasti all’attivo, da sempre attratto dalle pulsioni umane e dai lati più reconditi della psiche, e in egual modo dal rapporto degli individui con la propria sessualità e quella degli altri. Un autore che parla di noi a noi stessi, e che, per il solo rischio (aggirato) di essere per questa ragione rifiutato, andrebbe elogiato con tante altre parole ancora. Ma allora quanto, e come, la burrascosa vita privata del regista ha condizionato il suo straordinario lavoro? Forse, la risposta a questa domanda può essere trovata nell’aneddoto che riguarda Schindler’s List, per cui fu preso in considerazione come regista prima che il film fu affidato, come ben sappiamo, a Steven Spielberg: il motivo dietro al rifiuto sarebbe stato un coinvolgimento “troppo personale” con le vicende trattate, che hanno luogo proprio a Cracovia. Per il genio di questo autore, insomma, dovremmo ringraziare l’equilibrio con cui ha saputo perfettamente quanto distaccarsi dalla materia trattata, perché è grazie a questa scelta che la lucidità analitica del regista ha saputo regalarci ritratti umani indimenticabili.