7 film di Robert Zemeckis da vedere per attraversare l’immaginazione
7 titoli che, come il loro autore, hanno segnato la storia del cinema.
Nato artisticamente nell’ombra di Spielberg, Robert Zemeckis è un cineasta che ha fatto dell’illusione la propria lingua madre. Ha assorbito il senso dello stupore del collega, questo è indubbio, ma lo ha anche riformulato con una tensione diversa, in bilico tra l’entusiasmo del gioco e la malinconia della fine. È il regista che ha insegnato al pubblico a credere in un mondo dove i cartoon convivono con gli esseri umani, dove il tempo è un elastico e il digitale può diventare sentimento. Eppure, dietro i trucchi e la perfezione del meccanismo, Zemeckis ha sempre cercato l’imperfezione. Il suo cinema è quello di un illusionista che, mentre mostra il trucco, ci ricorda allo stesso tempo che la magia funziona solo se ci crediamo davvero. Dal Midwest degli anni Ottanta fino ai set virtuali del XXI secolo, ha costruito un’idea di cinema che si muove tra memoria e futuro. I suoi protagonisti sono sognatori, scienziati, naufraghi, ingenui . Zemeckis filma il desiderio di restare vivi nel tempo che passa, di continuare a muoversi anche quando tutto si ferma. Filma una tecnologia che non è mai fine a sé stessa, ma un modo per rendere visibile la fragilità. Questi sette titoli sono solo un attraversamento possibile: un modo per entrare nella mente di un regista che ha fatto del dubbio il suo motore narrativo.
1. All’inseguimento della pietra verde (1984)

È il film del salto, quello in cui Zemeckis capisce che l’avventura può essere anche un pretesto per raccontare due solitudini che imparano a camminare insieme. Michael Douglas e Kathleen Turner si inseguono, si insultano, si salvano a vicenda in una giungla che è più mentale che geografica. Dietro la commedia d’azione scorre un’ironia disarmata che trasforma l’avventura in un romanzo di formazione per adulti. Zemeckis gioca con i cliché ma non li deride: li piega, li ammorbidisce piuttosto. C’è già in questo film la consapevolezza di un autore che ama la velocità del racconto ma diffida della semplificazione.
2. Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)
Qui Zemeckis compie il suo gesto più spavaldo: far convivere due mondi che, fino a quel momento, si erano solo sfiorati. Ma Roger Rabbit non è solo un esperimento tecnico: è un noir sulla nostalgia, un film sulla sopravvivenza del disegno dentro la realtà. I cartoon non sono allegri, sono disillusi; ridono perché non possono piangere. Zemeckis orchestra il caos con precisione millimetrica, ma nel suo occhio c’è tenerezza per quel mondo destinato a svanire. Dietro le gag e i riflessi perfettamente calcolati, il film racconta la fine dell’infanzia americana, quando i sogni si sbiadiscono sotto la luce del neon. Eppure, nel sorriso storto di Roger, resta viva un’idea di cinema come atto di fede: credere che la matita possa ancora cambiare la realtà.
3. Ritorno al futuro – Parte III (1990)

Il capitolo meno spettacolare e più umano della trilogia. Qui Zemeckis sembra stanco di correre dietro ai paradossi temporali: preferisce fermarsi un attimo e guardare indietro. L’Ovest americano diventa un rifugio, una parentesi dove l’amicizia tra Marty e Doc assume il tono di una ballata malinconica. Niente più neon o chitarre elettriche: solo polvere, vento e il rumore del treno che passa. È un film che parla di addii e di seconde possibilità, del tempo che si piega non per cambiare la storia, ma per darle un senso. L’ultima immagine — la locomotiva che vola — non è solo un effetto: è una dichiarazione d’amore per il cinema stesso, la macchina che continua a viaggiare anche quando non c’è più nessuno ai comandi.
4. Forrest Gump (1994)
Zemeckis costruisce un’America filtrata dallo sguardo di chi non sa di guardare. Forrest Gump è un film che vive di paradossi: enorme e intimo, ingenuo e spietato, epico e domestico. Attraverso Forrest, l’autore mette in scena l’illusione di un Paese che corre per non affrontare il proprio trauma. L’uso degli effetti digitali è quasi invisibile, integrato in una regia che preferisce la fluidità al virtuosismo. Zemeckis osserva la Storia come una giostra che gira sempre uguale, mentre il suo protagonista cerca soltanto di restare in equilibrio. Forrest non capisce il mondo, ma lo attraversa con una grazia che il mondo ha dimenticato.
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5. Cast Away (2000)

C’è un momento, in Cast Away, in cui Tom Hanks guarda il mare e non succede nulla. È lì che il film si apre davvero. Zemeckis spoglia il suo cinema da ogni artificio e lo riduce a corpo, fame, silenzio. Il naufragio diventa un esperimento sulla resistenza e sul vuoto, ma anche un modo per misurare la distanza tra l’uomo e la civiltà che lo ha creato. Wilson, il pallone, è una trovata semplice e devastante: un interlocutore che esiste solo nella misura in cui serve a non impazzire. Zemeckis filma il tempo come una ferita che non si chiude, e la sopravvivenza come atto poetico. Quando il protagonista torna, non c’è alcun trionfo: solo la consapevolezza che ogni ritorno è un nuovo esilio. È il suo film più nudo, più sincero, quasi una confessione.
6. Flight (2012)
Dopo anni di astrazione digitale, Zemeckis torna alla carne, al sudore, alle rughe. Flight è il racconto di una caduta morale mascherata da storia di redenzione. Denzel Washington è un pilota che si crede un eroe ma è solo un uomo in frantumi. Il regista lo segue con una freddezza quasi documentaria, poi lo abbandona alla sua colpa. L’incidente aereo iniziale è cinema puro, ma quello che resta impresso è il silenzio dopo lo schianto. Zemeckis mette a nudo la fragilità del controllo, la dipendenza come metafora del bisogno di dominare tutto, persino il destino. È il film più umano di un autore che, per una volta, rinuncia al trucco e lascia che il fallimento diventi il vero spettacolo.
7. Here (2024)

Un film che sembra nato da un desiderio di quiete. Here è il punto d’approdo di una carriera intera, la resa dolce di un regista che ha sempre corso dietro al tempo. Tutto avviene in un’unica stanza, ma il tempo si dilata, scorre, si accavalla. Zemeckis usa la tecnologia digitale come strumento per disegnare la memoria: non per creare mondi, ma per conservarne la traccia. Tom Hanks e Robin Wright attraversano epoche, amori, nascite e assenze, come se i loro corpi fossero impronte in un film che respira. Non c’è più ironia, non c’è più corsa: solo uno sguardo che contempla. Here è il cinema ridotto alla sua essenza, l’immagine che resta dopo che tutto è passato. Un testamento poetico.
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