Editoriale | Ritorno Al Futuro: come il film ha cambiato una generazione

Uno studente poco disciplinato, uno scienziato pazzo e una macchina del tempo a forma d'auto: è con questi ingredienti che Robert Zemeckis ha dato vita, nel 1985, ad uno dei culti più resistenti della storia del cinema: Ritorno al futuro. Un film che ha modificato quasi geneticamente una generazione, gettando le basi per la sci-fi contemporanea.

Il 3 luglio 1985 esce nelle sale americane un film che – a suo modo – cambierà il modo di fare e intendere il cinema di fantascienza: Ritorno al futuro. Un piccolo/grande/enorme cult, che in breve espanderà la sua sfera d’influenza al resto del mondo, Italia naturalmente compresa. Una storia dalla lunghissima gestazione, iniziata nel 1980 grazie all’intuizione del produttore Bob Gale (autore, fra le altre cose, anche di sceneggiature per le case editrici di fumetti Marvel e DC Comics) e passata attraverso svariati rifiuti, fra cui spicca il gigantesco e sonoro no della Disney, che riteneva il film inadatto al proprio pubblico composto perlopiù di famiglie (“Siamo la Disney, e voi avete scritto un film che parla di incesto!”, e in effetti quello della madre che si innamora del proprio figlio era un twist troppo esplosivo per poter essere maneggiato senza far danni). Del resto, ogni rivoluzione fatica a essere compresa nel momento in cui prende forma: ci vuole coraggio, una buona dose di incoscienza e una certa preveggenza, per intuire dove sta andando il cinema e quali saranno le sue prossime coordinate. Ritorno il futuro ha cambiato una generazione, forse due: ripercorriamo i segreti del suo inesauribile successo.

Robert, Steven, Francis & Co.: è la Nuova Hollywood, bellezza!

Sui libri di storia del cinema si studia così: nel 1977, grazie all’uscita al cinema di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg e di Guerre stellari di Lucas, prende ufficialmente il via la cosiddetta New New Hollywood, naturale prosecuzione di quella New Hollywood che nel 1967 aveva stravolto il cinema “classico” americano a suon di Easy Rider e Bonnie & Clyde (e il trittico si completa con Il laureato di Mike Nichols).

A gestire trasversalmente le sorti del cinema che verrà è un manipolo di giovani autori che si stimano e si aiutano reciprocamente: Francis Ford Coppola, Robert Zemeckis, Steven Spielberg e George Lucas. Forzando un po’ la mano possiamo assegnare ad ognuno di loro un determinato ruolo: Spielberg è il leader del gruppo, Coppola il teorico, Lucas il sognatore e Zemeckis (il più giovane) lo sperimentatore. Tutta la carriera di Zemeckis è un inno all’innovazione e alla creazione (di nuovi mondi, nuovi immaginari), basti pensare a Chi ha incastrato Roger Rabbit, Forrest Gump, La leggenda di Beowulf (che proprio in questo periodo sta godendo di una ampia e più che giustificata rivalutazione). Modelli insuperati che – per fortuna – in questi anni non hanno avuto bisogno di remake o riaggiornamenti, proprio come Ritorno al futuro.

Ritorno al futuro e la nostalgia di epoche mai vissute

Difficile stabilire in modo univoco quali siano i segreti del successo della saga di Ritorno al futuro. Tutto concorre alla perfezione di un congegno ad orologeria oliato in ogni minimo dettaglio, capace di lasciare a bocca aperta grandi e piccini e di non invecchiare mai, affidando anche allo spettatore un ruolo quasi attivo, una sorta di libero arbitrio sull’interpretazione di alcuni passaggi e di alcuni snodi spazio-temporali.

A proposito di spazio-tempo: a rendere letteralmente irresistibili i mondi paralleli creati da Zemeckis non è tanto il respiro fantascientifico dell’opera (che è quasi una scorza, un espediente narrativo), quanto il suo clamoroso sottotesto nostalgico: Ritorno al futuro è imbevuto di pura e disarmante malinconia, sia per epoche mai vissute nel passato (perché tutti noi avremmo voluto suonare Johnnie B. Goode nel 1955, tre anni prima che venisse realmente composta) sia per un ipotetico futuro fatto di hoverboard (skater volanti) e auto volanti (l’iconica DeLorean) che frantumano lo scorrere cronologico del tempo. Un trucco di magia, forse una scorrettezza nei confronti di chi guarda; ma il compito del cinema non è in fondo quello di sospendere la nostra incredulità?

Il protagonista perfetto di Ritorno al futuro: Michael J. Fox o Eric Stoltz?

A contribuire in modo decisivo al successo di Ritorno al futuro è anche l’ottima scelta del cast: lo schizzato “Doc” Emmett Brown di Christopher Lloyd, il codardo George McFly di Crispin Glover, il bullo Biff Tannen di Thomas F. Wilson. Ma Ritorno al futuro non sarebbe lo stesso film senza Michael J. Fox, perfetta incarnazione dell’adolescente Marty McFly. Forse non tutti sanno che all’inizio l’attore prescelto per il ruolo era un altro: Eric Stoltz.

È Stoltz ad iniziare le riprese nei panni di Marty, ma viene licenziato dopo sei settimane. Il motivo? Zemeckis affermò che l’attore aveva la stoffa per il ruolo, ma che mancasse di quell’ironia necessaria al personaggio. Ed è vero: basta confrontare le poche scene originali rimaste di Stoltz con quelle rifatte da Michael J. Fox per rendersi conto della differenza. Marty è Michael: quelle espressioni e quel modo spensierato di attraversare il film sembrano cuciti addosso all’attore di Edmonton.
Per Michael J. Fox si trattò di un vero tour de force: durante il giorno recitava per la sit-com Casa Keaton, la sera era sul set di Back to the Future. E le ore di sonno quotidiane erano solo 5.

Sequel, remake, omaggi: giù le mani da Ritorno al futuro!

Leggi anche Ritorno al futuro potrebbe influenzare enormemente Stranger Things – Stagione 3

Come sappiamo, Ritorno al futuro ha avuto due sequel: una Parte II uscita a distanza di 4 anni (1989), vero e proprio virtuosismo che manda in solluchero la fanbase dura e pura, intrecciando i viaggi nel tempo e facendo incontrare il Marty McFly del passato con quello del presente (o viceversa) e spingendosi fino al 2015; e una Parte III (1990) ambientata nel vecchio West, più fiacca ma comunque utile ad alimentare il mito e a chiudere degnamente la trilogia.

E mentre nessuno fino ad oggi si è permesso di imbastire o abbozzare un remake (“dovete prima passare sul mio cadavere!”, tuona Robert Zemeckis), nel 2015 ha preso forma il documentario Back In Time (disponibile su Netflix), interamente finanziato da un crowdfunding di Kickstarter. Un’opera di pancia, diseguale ma pervasa dalla forza dell’amore (la stessa The Power of Love cantata in colonna sonora dal gruppo Huey Lewis and the News). La saga ha continuato a vivere e a crescere, scandagliata da fan irriducibili che ne hanno fatto persino un lavoro (il sito e il merchandise ufficiale del film sono curati da uno dei sostenitori della prima ora).

L’eredità di Ritorno al futuro, a prova di fake news

Periodicamente torna d’attualità la possibilità che Ritorno al futuro possa avere un quarto capitolo, annunciato spesso in pompa magna dagli stessi attori protagonisti: l’ultima clamorosa rivelazione in ordine di tempo è quella piovuta dal cielo l’8 giugno, direttamente dalla bacheca Facebook di Michael J. Fox. L’euforia dura poco, presto sostituita dalla presa di coscienza che si tratta – come è giusto che sia – di una fake news. Falso il profilo della star, falsa la foto di riferimento (desunta da tutt’altro evento). Ma Ritorno al futuro avrebbe davvero bisogno di un nuovo sequel? Se la trilogia zemeckiana ci ha insegnato qualcosa, è proprio che le opere d’arte – quelle vere – non hanno una data di scadenza, sono prodotti senza tempo.

Back to the Future ha cambiato una generazione, insegnandole che la fantascienza può apertamente flirtare con la commedia e con la parodia senza imporverire la propria natura (e, anzi, arricchendosi di nuove connotazioni). Il cinema è un gioco, che val la pena giocare e tramandare. Basta riavvolgere il nastro e ricominciare, stupendosi ancora e ancora di quanto 1955, 1985 e 2015 – e anche 1885, se amiamo il far west – siano lì, ad un battito di ciglia da noi.

Tags: Editoriali