Presence ma non solo: 6 horror leggendari che hanno rivoluzionato il genere
In attesa di Presence, l'horror diretto da Steven Soderbergh nelle sale italiane il 24 luglio 2025, ecco 6 classici che hanno rivoluzionato il genere.
Steven Soderbergh è un autore così inclassificabile che è difficile spiegare persino che lavoro faccia. La risposta stereotipata è: regista cinematografico, ma solo se si ignora che il nostro è anche produttore (fin qui nulla di particolarmente spiazzante), sceneggiatore (idem), montatore e direttore della fotografia. Andrà sicuramente meglio con la carriera. Quale? Il percorso arthouse (Sesso, bugie e videotape, 1989), commerciale (Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco, 2001), a metà strada tra i due (Erin Brokovich – Forte come la verità, 2000), la serie Tv (The Knick, 2014-15), il film concerto (Gray’s Anatomy, 1996), il direct-to-streaming (Kimi – Qualcuno in ascolto, 2022), il genere (Black Bag – Doppio gioco, 2015)? Se la strada del multiforme autore americano sembra costruita per sfuggire alle categorizzazioni sbrigative, una parola chiave per sintetizzarne l’eterogeneità esiste: sperimentazione. Steven Soderbergh sperimenta, sempre. Il suo ultimo film, Presence, è qui per dimostrarlo.

Presence è un horror girato in modo diverso dagli altri
In sala in Italia il 24 luglio 2025 per Lucky Red, Presence è un horror diretto da Steven Soderbergh su script di David Koepp. È la storia di una casa, di una famiglia – Lucy Liu, Chris Sullivan, Callina Liang, Eddy Maday – e di un fantasma. Un film di fantasmi non è la novità più sexy dell’estate 2025; è come Steven Soderbergh sceglie di mettere in scena il soggetto, che fa la differenza. Presence è una storia di fantasmi girata dal punto di vista del fantasma. Non si pensi a un escamotage ruffiano e di facile presa sul pubblico: la soluzione – senza spoiler – ha un senso emotivo e narrativo preciso. Per omaggiare l’uscita in sala di Presence, ecco 6 horror leggendari che hanno cambiato il genere. Si tratti di tecnica, di sceneggiatura, di realismo degli ambienti o dell’eterna partita tra raccapriccio e atmosfera, il denominatore è comune: l’horror funziona meglio quando ha il coraggio di sperimentare.
Occhi senza volto (1960): l’horror si fa poetico

Ricordiamo che nell’anno d’oro dell’horror, il 1960 – c’è anche La maschera del demonio di Mario Bava e il prossimo film in questo focus – Occhi senza volto è uno dei gioielli della corona. Diretto dal francese Georges Franju e interpretato, tra gli altri, da Edith Scob, Pierre Brasseur e Alida Valli, di originale ha non solo l’accostamento di horror e fiaba nera – la storia di un chirurgo che setaccia Parigi in cerca di giovani donne cui asportare la pelle per ricostruire il volto sfigurato della figlia! – o il carattere profetico di alcune intuizioni, all’epoca classificate come sci-fi; un traguardo comunque ragguardevole. La quieta rivoluzione di Occhi senza volto è il ribaltamento delle convenzioni del genere senza tradirne la formula. Non c’è paura, almeno non nel senso convenzionale – e raccapricciante – del termine. Al suo posto, tanta poesia e una dolcezza eterea e malinconica che lega sorprendentemente con storia e atmosfera. L’orrore al cinema non è mai stato così poetico, vedere per credere.
Cosa c’è di Occhi senza volto in Presence? Una forte componente malinconica, sentimentale, che accompagna e irrobustisce la paura.
Psyco (1960): l’horror e la quotidianità

Il più influente thriller-horror della storia del cinema – epocale al punto da essere pietra miliare non per uno, ma per due generi contemporaneamente – nasce per colpa, o per merito, di Audrey Hepburn. È il no improvviso dell’attrice inglese a un thriller ad alto budget, di ambientazione legale, in Technicolor e da girarsi a Londra – si sarebbe dovuto chiamare No Bail for the Judge – a spingere uno stizzito Alfred Hitchcock a tornarsene a Los Angeles per un progetto diverso: un horror in bianco e nero, dal mini budget e con la modesta troupe della serie Tv Alfred Hitchcock presenta. Sappiamo come finirà: il piccolo film nato per ripicca diventa il più famoso e redditizio nella carriera del regista inglese (trapiantato a Hollywood). La rivoluzione di Psyco è doppia: da un lato la scelta, inaudita ancora oggi, di far fuori la protagonista, Janet Leigh, a mezz’ora circa dall’inizio del film. Poi, l’aver trasportato l’immaginario horror nella quotidianità. Niente castelli, Transilvanie (sorry) trasfigurate dal mito o bizzarre creature; Psyco è la storia di gente semplice alle prese con problemi normali: soldi, sesso, la ricerca di un posto decente in cui dormire, la mamma. Non ha guastato che l’omonimo romanzo di Robert Bloch da cui è tratto il film “rubasse” alla vera storia di Ed Gein, il serial killer ispiratore, tra l’altro, di Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.
Cosa c’è di Psyco in Presence? Pur trattandosi di una storia di fantasmi, il film di Steven Soderbergh è un horror ben ancorato alla realtà di tutti i giorni.
Profondo Rosso (1975): l’azzardo geniale

In attesa di Presence, qual è l’horror italiano per eccellenza? Tra i migliori anche oltre i confini nazionali? Il più spaventoso? Certo. Sicuro. Altamente probabile. La carica trasgressiva di Profondo rosso, il capolavoro diretto da Dario Argento nel 1975, ha molte facce, basti pensare all’iconica colonna sonora dei Goblin o al mix di quotidianità sanguinosa e coté fiabesco. Ma c’è un elemento che più di ogni altro sottolinea la forza rivoluzionaria del film. È un’idea di sceneggiatura che diventa puro cinema, un colpo di genio, uno spoiler dal potenziale incalcolabile che resiste all’usura del tempo e delle repliche: il volto del killer svelato all’inizio del film, per seminare dubbi nella coscienza dello spettatore. Il trionfo della forza subliminale del linguaggio cinematografico; è questione di un attimo, ma sufficiente per influenzare retrospettivamente la nostra percezione e disorientarci. Qualcosa sfugge al protagonista David Hemmings e al pubblico che tifa per lui. L’incertezza, il presentimento di una verità sfuggente eppure a portata di mano, esasperano la paura e il senso di minaccia suscitato dal film. Una scelta rischiosissima, ma la scommessa ha (stra)pagato.
Cosa c’è di Profondo rosso in Presence? La verità sfuggente e insieme vicina. Soprattutto, l’importanza degli specchi.
Cure (1997) e Ring (1998): è arrivato il J-Horror

Due film, un genere. Tra il 1997 e il 1998 arriva dal Giappone una novità che riscrive le regole dell’horror moderno, rilancia una nobile tradizione e fa venire l’acquolina in bocca a Hollywood. I film si chiamano Cure (1997, Kiyoshi Kurosawa) e Ring (1998, Hideo Nakata) e sono generalmente considerati i padri nobili del nuovo horror nipponico, il Japanese Horror, ridotto in J-Horror. In realtà, il filone ha radici antiche; una tradizione – storie di fantasmi – anteriore al Novecento e qualche precedente cinematografico già a partire dagli anni ’60. È però il successo di pubblico e critica dei due film sul finire del secolo (e del millennio) a dare al J-Horror la spinta necessaria a superare i confini nazionali e imporsi come fenomeno globale. Dove sta la rivoluzione nel J-Horror e, più nello specifico, in Cure e Ring? Nel mix prodigioso di fantastico – ancora fantasmi – e realismo, nell’audacia di una narrazione circolare, ambigua, ellittica, e nella rivalutazione dell’atmosfera come veicolo di paura, insieme e non al posto del macabro e del raccapricciante (ci sono anche loro). Capolavori di atmosfera e tensione insostenibile, Cure e Ring – da quest’ultimo scaturirà un fortunato franchise americano – aprono le porte a un horror ipnotico e decisamente spaventoso.
Cosa c’è di Cure e Ring in Presence? Horror d’atmosfera e, va da sé, i fantasmi.
Scappa – Get Out (2017): l’horror, la satira sociale, la politica, in attesa di Presence

L’horror americano più importante del XXI secolo è la dimostrazione che genere e intelligenza possono convivere in maniera civile. Non è il caso di sottovalutare la portata culturale del successo di Scappa – Get Out, l’horror apertamente politico diretto nel 2017 da Jordan Peele – è il suo debutto dietro la macchina da presa – e interpretato da Daniel Kaluuya e Allison Williams. Satira horror affilata e incredibilmente ambiziosa, tematizza i guasti di un certo modo liberale di pensare, rilancia le tensioni razziali sopite ma non spente nella società statunitense e fotografa l’esperienza afroamericana in modo estremamente pessimista, coinvolgente e spettacolare. Ragazza bianca porta il ragazzo afroamericano a conoscere i suoi genitori; ci saranno (brutte) sorprese. La forza di Scappa – Get Out è di non lasciarsi sopraffare dalle sue ambizioni, ma di iniettarle nella storia per farne pura emozione cinematografica. È un grande spettacolo, e ci racconta qualcosa di importante sul mondo in cui viviamo. Un divertimento davvero diabolico.
Cosa c’è di Scappa – Get Out in Presence? Anche se la definizione di elevated horror è controversa, si tratta in entrambi i casi di spettacolo d’autore. Presence non è satira sociale, ma ha molto da dirci su identità, trauma e famiglia.