Il cinema di Pier Paolo Pasolini: inchiesta, omologazione e sessualità

Nato a Bologna il 5 marzo del 1922, naufrago tra culture martoriate da due guerre, la prima risolta, la seconda catastrofica dentro nefandezze e barbarie tutte umane, Pier Paolo Pasolini, oltre a ingenite genialità attrattive, esercita la sua mente affinandola all’interno di una fisicità mutuata in psicologiche inquietudini e sviluppando solide costruzioni al fine di scrivere un itinerario nutrito di una modernità già troppo vecchia per lui, corrispondente a congedi adolescenziali sovrastati da adulte curiosità.
Contagioso per chi gli stava accanto, incantatore di serpenti, scribacchino primordiale di dialettiche esordienti, di pensieri fluidi dipanati tra emancipazioni sinteticamente arrugginite rispetto ad una costante avanguardistica che si stringeva, a volte, a misere metafore dentro piccoli discorsi detentori di logiche etiche complesse.

Un comizio d’amore da chi di amore osa parlare davanti a spettatori spaventati tanto dal bene quanto dal male, con la netta contraddizione di una volontà che non sovrasta mai l’ipnosi di immagini tanto autentiche, quanto astratte.
Pasolini, profeta del suo presente, osa intraprendere una direzione contraria imbattendosi in meccanismi e reti, eliminando l’intralcio dell’ordine e proponendosi al caos della disubbidienza nei confronti di “etiche perfette”, straniero e distante da forme di pensiero rinchiuse in contenitori standardizzati.
Empatizzare lo scandalo fraternizzando con lo spettatore; concedersi alla libertà spingendosi in scelte senza predomini dottrinali, nell’esercizio di un giudizio senza la gogna del pregiudizio dettato da varianti di partito.
Eclettico quanto basta per chi si impegna a descriverlo, eclettico immerso in costanti e allegoriche ambivalenze che d’arte si nutrono. Pasolini sistematico mai, ma intensamente sovversivo e avvolgente, dal gusto impalpabilmente eccellente, direttore di una logica alimentata a sensore, di orchestre stridule e opache scenografie tanto livide quanto seducenti.

Sono gli anni ’50 e Pier Paolo Pasolini, autore ricercato e unico nel suo genere, è tra i protagonisti del nascente cinema in prosa, scandito da suggestive prosodie di strada.
Nel 1955, il libro Ragazzi di vita colpisce la critica che lo acclama come un autore urbano che con tratti nobili e concetti filosoficamente sofisticati spiega una realtà svestita e impietosa. Dall’esordio narrativo di Pier Paolo Pasolini nascerà la collaborazione con Cecilia Mangini per il suo primo docufilm Ignoti alla città (1958), documentario che scosse molto la critica che lo giudicò offensivo e diseducativo scegliendo di non esportarlo all’estero ma di proiettarlo esclusivamente in Italia.

​La violenza antiborghese diviene il filo conduttore che predominerà nella sua primissima filmografia. La gente grida i propri diritti nelle piazze, in una Roma bombardata da estremismi classisti e divergenze sociali dentro confini senza tempo. Dal dissolvimento del suo primissimo Accattone (1961) a Mamma Roma, uscito nel 1962 e interpretato da Anna Magnani. È un un’arte, il cinema di Pasolini, finalmente slegato da censure misurate. Una maternità incapace di risoluzioni, di fragilità, Pasolini non ha molto da raccontare ma ha tanto da far vedere.

La sessualità intellettuale d’inchiesta

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Mai giudice, accusa la riservatezza di una società che si definisce sconcia ogni qualvolta si sveste, tendendo a ridimensionare l’imbarazzo di una sessualità destinata altrimenti ad un’intima, sopita vergogna e concedendola ad una normalità umana di passione e sentimento. Comizi D’amore (1963) è un film diviso in sei capitoli per sei temi differenti destinati ad affrontare la  normalità del rapporto fisico discutendone alla luce del sole; Comizi d’Amore è un d’inchiesta sul sesso del popolo italiano negli anni sessanta  senza alcuna distinzione di genere, classe sociale ed età. Interviste alternate a dialoghi e opinioni con i grandi della letteratura del Novecento, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Oriana Fallaci. Pasolini ci presenta la sessualità come fosse un viaggio al passo con la crescita interiore e corporea, dalla purezza infantile alle curiosità adolescenziali, sino al matrimonio e al concetto di famiglia diversificato dai vari contesti italiani condizionati da un confinario Nord e Sud. il film si proporrà fin da subito come una indagine posta sottoposta ad attente analisi da parte della sociologia del tempo, rendendolo una ricerca al fine di determinare “sessualità intellettuale” che padroneggia naturalmente tra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo, elevandola a pettegolezzi di corte e classificazioni elitarie spesso detentrici di apparenza di io deformati da etichette pruriginose. Un’inchiesta che ha il senso di dissolvere l’inquisizione dell’intimità di qualsiasi uomo elevandolo da un legame quasi sacrale ad una struttura ossea predominante sullo spirito e sull’anima.

Pasolini, l’uomo dalle idee recluse, condannato a trattenere le parole, esempio chiaro di una giustizia italiana banale e becera, il più delle volte garantista di un futuro che non sarebbe affatto cambiato. Criminale per aver portato in scena, nel 1963, La ricotta (contenuto nel film Ro.Go.Pa.G., il cui titolo è la sigla dei registi che hanno diretto il film – diviso in quattro episodi, appunto -, ovvero, oltre a Pasolini, Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti), sentenza chiara ed esplicita dell’inganno beffardo per il quale una crocifissione fu tanto indigesta da costare la vita e dimenticare l’ultima battuta. Semplicemente un Orson Welles e l’interpretazione di un concetto marxista ridotto ad un proletariato che soccombe di fronte al miraggio del benessere. Cristo e la croce saranno una metafora avventata, che arresterà la ripresa di un ideologico figurativo, oggi estremamente pasoliniano.

Tra i documentari girati da Pier Paolo Pasolini, stavolta insieme a Giovannino Guareschi, troviamo La rabbia, opera cinematografica aggrappata al dubbio di una domanda che sembra spaventarci per quanto attuale: “perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza dell’angoscia, dalla paura della guerra?”. Qui l’autore si mostra amante, eternamente fanciullo, di un’idea di progresso impossibile allora, irrimediabile adesso.

Pier Paolo Pasolini e l’omologazione

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Alla fine degli anni ‘60 la fotografia rimane sempre sgranata, non c’è alcuna voglia di
migliorare tecniche e colori. Pasolini, regista di capolavori, non dimenticò mai il gusto artistico appreso come spettatore di Charlie Chaplin e Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, imponendosi con confidenza sugli schermi, dimostrando una grandezza espressiva e comunicativa tale che sembrava impaginasse pizze cinematografiche ancora da sfilare e produrre. Allergico ad ogni forma di omologazione, al design d’intontimento, a quella maledetta televisione, mezzo diretto di ambigui messaggi fascisti ed eccentricità imperative.

Teorema, uscito nel 1968, incalza in un contesto ricco di tensioni tra fanatici di potere e una corsa frenetica di sapere. Pasolini arriva come un fulmine a ciel sereno a scuotere gli animi di una famiglia milanese borghese nelle vesti di un giovane dai comportamenti insoliti e bizzarri, denunciandosi come stimolo sessuale nei confronti dei componenti di una famiglia disagiata dentro e interrotta da abitudini ben presto assassine.
Teorema fu originariamente concepito come una tragedia in versi, alternata da un passo a due tra Marx e Freud, emancipando una religiosità latente troppo blasfema per la chiesa dal colletto bianco, inorridita dinnanzi la volontà d’arte pubblica di evasione, provocazione e indifese sperimentazioni sessuali, ben scritte da un regista sfrontato e sporco di ossessiva osservazione degli uomini, anche di chi uomo non si sentiva, divergendo da inappropriate elevazioni divine e ben distanti da poltrone politiche ed ecclesiastica politicità.

Periodicamente demoralizzato da un’opinione pubblica forzatamente sorda, Pasolini riesce a galleggiare tra discriminazioni e disapprovazioni sollevate da politiche elitarie prudentemente silenziose verso un’innovazione e destabilizzate da una quotidianità divenuta commedia d’arte.

Il cinema di Pier Paolo Pasolini si inserirà come cinema di intervento, alimentato da riscossioni, risentimenti e sentimenti, da ideali di equilibrate follie e severe prevaricazioni di una società assuefatta da un governo comandante e comandato. Un cinema di altissima espressione, scritto e recitato in versi messi in riga da affermazioni mai ridotte, mai tagliate e mai limitate; uno stile libero ed un tecnicismo assente; un cinema impregnato di una modernità eterna, predisposto a divenire un ultimo giro per conficcare le vite nel cuore stesso della verità. Un cinema d’avanguardia colmo di neorealismo che adagiato tra ambientazioni da tragedia greca e umili realtà. Pasolini per natura affine alla rivolta e alla sovversione, indifferente ad un ordine ideologico, ma attento lettore e interprete dei singulti interiori di vite per consuetudine complicate.

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