L’ultima casa a sinistra: il film horror è ispirato a una storia vera?

Presentato come una storia vera, L’ultima casa a sinistra è un film diretto da Wes Craven, un regista destinato ad essere ricordato nell’Olimpo dell'horror.

Contestualizzabile nella cornice dell’exploitation horror movie, il genere che aveva conquistato i cinefili degli anni Settanta, L’ultima casa a sinistra è un lungometraggio diretto nel lontano 1972 da Wes Craven, un regista che sarebbe stato inserito da lì a poco nell’Olimpo del genere dell’orrore, e che è stato presentato dallo stesso come “una storia vera”. Dopo aver attraversato un lungo percorso che ha portato alla propria riabilitazione e ad un nuovo apprezzamento da parte del pubblico, il debutto cinematografico dell’artista è attualmente considerato essere un titolo estremista e sovversivo che desiderava ripudiare e superare i canoni dell’epoca riguardanti i film di genere, uno dei film più influenti e più rivoluzionari del cinema horror.

Cavalcando il successo che deriva dall’indignazione suscitata a causa dell’eccessiva violenza che veniva rappresentata all’interno dell’opera cinematografica, il produttore del film, Sean S. Cunningham, cercò di aumentarne la fama attraverso un meccanismo utilizzato frequentemente dalle case di produzione focalizzate sulla distribuzione di film dell’orrore – ovvero, attraverso l’inserimento della frase “Basato su una storia vera”, poche parole che sono in grado di ripugnare e, al contempo, affascinare ancora di più il pubblico. Ma L’ultima casa a sinistra è davvero ispirato ad una storia vera?

L’ultima casa a sinistra non si ispira ad una storia vera, ma ad una leggenda

Storia vera de L'Ultima casa a sinistra, Cinematographe.it

La trama de L’ultima casa a sinistra segue le macabre vicende che hanno come ignare protagoniste due ragazze adolescenti, Mary Collingwood (Sandra Cassel) e l’amica Phyllis Stone (Lucy Grantham), il cui tragico destino si svolgerà a partire da una serie di eventi all’apparenza normali per la vita di un diciassettenne: desiderosa di festeggiare il proprio compleanno, Mary propone di comprare dell’erba da Junior, un eroinomane che sfrutterà l’occasione per invitarle a casa sua. Terribilmente innocenti, le giovani accetteranno, cadendo nella trappola degli assassini che si nascondono in quella casa e che le porteranno nel bosco per torturarle fino a notte fonda.

Come detto precedentemente, come introduzione alle immagini che costituiscono il film, il regista e i produttori hanno deciso di inserire le parole “Basato su una storia vera”, quasi a voler rendere la storia narrata ancora più interessante. Sono parole che non stupiscono, nonostante la terribile ferocia delle azioni: magari è tratto da un nauseante ed efferato omicidio da cronaca nera, può pensare lo spettatore. Tuttavia, nessuno potrebbe capire che, in realtà, la narrazione di L’ultima casa a sinistra è ispirata alla leggenda raccontata in una ballata svedese di origine medievale e conosciuta tramite i nomi di Töres döttrar i Wänge (Le figlie di Töre a Vänge, dove Vänge è una località situata nei pressi della città di Uppsala) e di Per Tyrssons döttrar i Vänge (Le figlie di Per Tyrsson a Vänge).

Il titolo della canzone medievale molto probabilmente non suggerirà nulla ai più – eppure, si sta parlando della narrazione del folklore svedese da cui Ingmar Bergman ha tratto ispirazione per il suo ben più celebre film La fontana della vergine (Jungfrukällan, nel titolo originale), diretto nel 1960 dal maestro svedese. Quindi, in altre parole, Wes Craven ha fatto del lungometraggio di Bergman la sua maggiore fonte di ispirazione – ed è stato lui stesso ad ammetterlo.

Bisogna specificare che, prima di intraprendere la sua carriera cinematografica, il cui debutto venne proprio rappresentato da L’ultima casa a sinistra, il regista era stato professore di discipline classiche per lungo tempo. Proprio durante il periodo dedicato allo studio dell’ambito umanistico, Craven aveva avuto modo di avvicinarsi alla filmografia di Bergman, la quale l’aveva enormemente affascinato grazie alla complessità delle proprie tematiche filosofiche. La decisione di abbandonare l’insegnamento, tuttavia, non fu dettato tanto da un amore incontenibile nei confronti della Settima Arte, quanto dalla distaccata freddezza con cui gli Stati Uniti d’America avevano deciso di affrontare il caos creatosi con l’inizio della già citata Guerra del Vietnam – sarà, infatti, proprio a causa dell’interminabile successione di crimini perpetuati nei confronti della popolazione locale che Craven deciderà di abbandonare la sua professione, di adottarne una nuova e di dar vita al suo primo lungometraggio, un film in cui l’efferatezza della società moderna veniva esplicitamente denunciata e, quindi, condannata dall’artista.

Mi sono ispirato ad una storia che avevo conosciuto insegnando al college e di cui avevo studiato l’utilizzo da parte di Bergman. Era [un racconto, Ndr] piuttosto vecchio, risalente a centinaia di anni fa, ed era stato tramandato attraverso i racconti medievali in Svezia”, ha dichiarato Craven. “Si sta, quindi, parlando di una storia molto, molto antica. Mi ha attratto completamente perché è così semplice, così pura e così potente. Non si tratta solamente di un delizioso racconto ironico, ma di un racconto sulla nascita di una nuova tipologia di oscurità – l’oscurità di persone all’apparenza normali, giuste. L’ho trovata una riflessione molto interessante ai tempi del Vietnam o almeno, il professore di discipline umanistiche che si nasconde in me ha tracciato questo parallelo e l’ha trovato interessante.

In entrambi i lungometraggi in questione, un’adolescente innocente e lontana dalla malizia del mondo, figlia unica di genitori amorevoli che darebbero la vita per lei, si allontana di casa per quello che dovrebbe essere un periodo molto breve, accompagnata da un confidente fidato. Lungo la via, improvvisamente la giovane viene fermata da una banda criminale, brutalmente violentata e assassinata nelle profondità dei boschi. Discostandosi dalla maggior parte degli horror dell’epoca, in entrambe le opere cinematografiche i mostri non sono creature deformate e irreali, frutto di un’immaginazione fervida, ma uomini, quasi a simboleggiare la cattiveria recondita, primitiva e irrazionale che si annida nella psiche dell’individuo, che si nasconde in una società che si definisce pulita, normale. A differenza del capolavoro di Bergman, tuttavia, ne L’ultima casa a sinistra la storia vera narrata dalla voce popolare del folklore non viene ambientata in un contesto medievale (ovvero, nel contesto in cui è originariamente ambientato il racconto), ma viene rimessa inscena nella società odierna – diviene, quindi, oggetto di un processo di attualizzazione e modernizzazione non tanto da un punto di vista contenutistico (le leggende parlano sempre di temi universali e atemporali, si sa), ma da una prospettiva formale di costumi, di linguaggio parlato e di scenografia.

Così Craven decise di scrivere una storia che parlasse di violenza e di depravazione, una storia che si faceva specchio della cronaca nera dell’epoca, quella cronaca nera che risuonava infinitamente attraverso i notiziari dell’epoca. Senza soffermarsi solamente sulla realtà del suo tempo, il regista tracciò ripetuti riferimenti alla storia “vera” di La fontana della vergine di Ingmar Bergman e della leggenda a cui quest’ultimo si era precedentemente ispirato. Così Creven creò L’ultima casa a sinistra, un lungometraggio che si presentava quasi come un remake non ufficiale, come l’esplicito omaggio di un neofita ad un maestro mai conosciuto, ma che l’aveva notevolmente ispirato.