Liliana Cavani: film e poetica della regista Leone d’oro alla carriera a Venezia 80

Liliana Cavani riceve il Leone alla carriera. In occasione del premio e della cerimonia d'apertura della Mostra del cinema, a lei dedicherà una laudatio Charlotte Rampling. Il nostro ritratto di una donna d'intelletto e d'azione, il cui cinema è abitato da protagoniste decentrate e ‘assolute’ e da (auto)diseredati che hanno a schifo i propri padri.

Liliana Cavani (Carpi, 1933) non è diventata regista con i due corti realizzati come saggio di diploma al Centro sperimentale di cinematografia di RomaIncontro notturno (1961), quest’anno in programma a Venezia all’interno della Settimana Internazionale della Critica, e il mediometraggio La battaglia (1962) –, quando, già laureata in lettere classiche, decise che il cinema, così a lungo frequentato nell’infanzia insieme a sua madre, sarebbe diventato lo strumento con cui proseguire i suoi studi e i suoi giochi di bambina (“Da bambina giocavo molto, studiavo molto, e fare film, più che un vero lavoro, è una continuazione di quelle occupazioni e di quei piaceri infantili nei quali m’impegnavo molto”), bensì quando, appena undicenne, vide in piazza un mucchio di cadaveri trucidati dai nazifascisti per rappresaglia a un’azione partigiana.

Lei, allora ancora bassa di statura, riuscì, non vista, ad avvicinarsi a quei corpi, “come pupazzi” ammonticchiati l’uno sull’altro. L’incontro con l’orrore – la mostruosità propria dell’umano e aliena al bestiale, un orrore sia storico-contingente sia costante-universale – la segnò attraverso una duplice epifania: in quel momento, la piccola Liliana capì che non avrebbe mai avuto paura di guardare, e quindi anche di mostrare, la crudeltà degli uomini e, in quel momento, la piccola Liliana intuì che lo sguardo dal basso rappresentava un vantaggio, una posizione da cui si originava l’opportunità di osservare e, quale unica possibilità, quella di elevarsi. 

Liliana Cavani: dall’esperienza infantile di testimone dell’orrore omicida, la vocazione a mostrare il male per quello che è, una possibilità dell’umano

liliana cavani cinematographe.it https://www.pesarofilmfest.it/updates/news/359-evento-speciale-liliana-cavani
Liliana Cavani è regista di cinema, d’opera e di teatro di prosa. Il 12 gennaio 2023 ha compiuto novant’anni.

Le inquadrature decentrate che tagliano le immagini in corsa dei suoi film sono non a caso spesso concepite alle stregua di correlati formali di elaborazioni teorico-simboliche: spesso in quei ritagli eccentrici, lontano dal centro, vengono presi i personaggi femminili, relegati alla periferia della scena così come lo sono nella società, ma, sebbene (e)marginate, le sue donne – estreme e estremiste, ostili al compromesso – sono determinate ad accogliere l’eccentricità e il decentramento come occasione di apprendimento e di sovvertimento dello status quo.

La sua Lou von Salomè, interpretata da Dominique Sanda in Al di là del bene e del male (1977), vertice di un triangolo del libero amore e dell’anticonformismo pre-novecentesco che vede ai due estremi Friedrich Nietzsche e Paul Rée, è l’unica dei tre amanti a godere veramente dell’emancipazione dei propri sentimenti dalla loro ipoteca da parte del potere: i ‘suoi’ – suoi per semplificazione – uomini no, non riescono a liberarsi di un modo di concepire e vivere le relazioni nello squilibrio ‘comodo’ e vieto tra dominio e dipendenza, comando e subordinazione. La Chiara del suo secondo Francesco (1989), interpretata da Helena Bonham Carter, è compagna alla pari del santo, con lui, sensualmente fianco a fianco, lotta fino a lasciarsi morire per il privilegio della povertà, che poi è il privilegio supremo della libertà dai dogmi del padre. Un padre che si crede il Signore, ma altro non è se non un surrogato abietto del Padre, incarnazione degenerata in senso tirannico di un’idea deteriore di Dio. 

Liliana Cavani: il suo ritorno all’uomo di carne Francesco, prima figlio in fuga che santo inflessibile

Liliana Cavani e Mickey Rourke sul set del suo secondo film dedicato a Francesco.

Il cinema di Liliana Cavani è nato, in seno all’establishment, ma in qualche modo contro ogni istituzionalismo e catechismo, con i documentari storici realizzati per la Rai. È stato fin da subito e, coerentemente, un cinema filologico – nel senso di scrupoloso, stratificato – e, solo all’apparenza contrastivamente, un cinema di spirito e di moti interiori. Eppure, è anche – mai in contrapposizione dualistica e antinomica – un cinema di corpi, di gravami (ad Einstein, e alle sue prepotenze patriarcalmachiste, ha dedicato un film, nel 2008). I corpi, nei suoi lavori, pesano, letteralmente e metaforicamente, come pesavano le carcasse dei partigiani massacrati in piazza: benché abbia fama di regista interessata ai temi della religione, Liliana Cavani, figlia unica di madre atea e di padre cattolico solo per forma, nei suoi film insegue più che altro lo spirito che vuole liberarsi: liberarsi non dalla carne, bensì insieme ad essa e spesso attraverso di essa; liberarsi dalle scritture che imprigionano e impediscono di accogliere in continuità (e complicità reciproca) corpo e anima, aspirazione erotica e aspirazione intellettuale, biologia e cultura.

Nei suoi tre film su Francesco – quello, presessantottino, del 1966; quello, controdivistico e antimercantilistico, del 1989 e l’ultimo, imperniato sul primato della fraternità sull’individualismo, del 2014 –, l’uomo Francesco è più importante del santo: della figura storica, a Liliana Cavani importa comprendere, ogni film un po’ di più e un po’ più a fondo, la domanda anarchica, una domanda in verità d’amore che rinuncia alla grammatica del possesso e anzi denuncia la fallacia della sostituzione metonimica tra dono e denaro. Il padre non ama perché dà (né tantomeno dando), ma il padre può amare solo se consente al figlio di ribellarsi contro il suo dono, di umiliarlo, di preferirgli il niente, di condividere quel niente, fino a porzionarlo all’infinito, in una paradossale moltiplicazione di ciò che non c’è.

Liliana Cavani scelse Mickey Rourke per il suo secondo film su Francesco perché Mickey Rourke, alla fine degli anni Ottanta, era reduce dal successo di Nove settimane e mezzo e rappresentava l’it boy, il sex symbol, l’oggetto del desiderio. Mickey Rourke era Francesco nella vita, e di conseguenza poteva diventarlo anche nella finzione filmica, perché di quei doni non sapeva che farsene, perché lui poteva non solo sbarazzarsene, ma anche capire che, in quella rinuncia, si trovava una ricchezza più grande, un movimento di trascendenza, una forma più alta di godimento e di libertà. Per essere sicura di aver scelto bene, gli propose di condividere una pizza e di mangiarla insieme sul tappeto. Mickey Rourke non ebbe nulla da ridire e Liliana Cavani seppe così che su di lui non si era sbagliata, che lui era “umanamente adatto al ruolo“, come ebbe a dire poi.

Liliana Cavani: un cinema programmaticamente provocatorio che si rivolge, attraverso le maschere, alle questioni fondamentali

Più volte colpita da interrogazioni parlamentari o proposte censorie, la regista di Carpi che a novant’anni presenta a Venezia il suo ultimo film, L’ordine del tempo, tratto da un saggio del fisico Carlo Rovelli, ha sempre inteso lo scandalo come impegno, conscia che non può esistere arte all’interno delle strettoie del pensiero comune e del cliché intellettuale o estetico né tantomeno dentro l’obbligo del tema urgente, della questione scottante o dell’argomento di moda. Per Liliana Cavani indagare, attraverso il film, il nodo psicologico, la dinamica tra pulsione e desiderio, la dialettica tra istanza soggettivante-individuativa e richiesta sociale conta più che ricostruire un’epoca o ambiente, senz’altro più che replicare mimeticamente la realtà. Il suo realismo si è sempre amplificatoriamente infilato nella crudezza e nella violenza di cui l’esperienza umana può farsi carico, e il suo realismo è passato spesso anche attraverso la maschera del mito

Al mito classico è tornata con I cannibali (1969), riscrittura filmica dell’Antigone sofoclea; nelle sue mani, e nei suoi occhi, persino il più resistente dei nostri tabù – la possibilità di trasfigurare la Shoah in simbolo d’altro, di trascendere il suo significato testimoniale in significante portatore di un messaggio diverso, in un segno che dice altro rispetto al referente comune e letterale – è stato abbattuto: dietro un gerarca nazista divenuto portiere di notte – custode della notte –, ha nascosto il sadico che alberga in ogni uomo; dietro al volto bianco e senza segni, al corpo androgino e apparentemente asessuale di un’ebrea ex internata, ha nascosto la masochista eroticamente e aggressivamente complice del sadico, la vittima a cui è impossibile dirsi e sapersi al di fuori di un rapporto con qualcuno che le fa del male e a cui fare del male, qualcuno con cui confondersi fino a diventare lui stesso, sia aguzzina di sé e dell’altro amato-odiato sia, specularmente, vittima di sé e dell’altro amato-odiato. 

Difficile è distinguere vessato e vessatore, tanto più se è un rapporto regolato dall’automatismo del rimbalzo di potere. Ciò rende impossibile edificare una morale o ridurre ad essa l’esperienza umana. In questi tempi ci si prova continuamente, ma l’impressione è che si tratti di un esercizio pedante e votato allo scacco da parte del reale piuttosto che una nobile inquietudine di giustizia. Il cinema è stato forse, per Liliana Cavani, un antidoto alla tentazione di ridurre l’essere umano alla morale, di rimpicciolirlo fino ad annichilirne la complessità nelle condotte apparenti o, peggio, in un pensiero costruitogli intorno, un pensiero che facilmente fa a meno della carne, del desiderio, della malvagità, e tutto quanto appiattisce a un’aspettativa di conformità, a pura ‘informatività’ senza ulteriori velami a cui attingere, lettera magra che non produce metafore e, per questo, nella sua disponibilità a farsi capire subito, si condanna all’inattualità.

Il suo è sempre stato un pensiero anticonformista, libero da preconcetti ideologici e svincolato da condizionamenti di sorta, mosso dall’urgenza della ricerca continua di una verità celata nelle parti più nascoste  e misteriose dell’animo umano, fino ai confini della spiritualità“, scrive Alberto Barbera nelle motivazioni al premio, aggiungendo che lo sguardo di Liliana Cavani è “politico nel senso più alto del termine, anti-dogmatico, non allineato, coraggioso nell’affrontare anche i più impegnativi tabù, estraneo alle mode, refrattario ai compromessi e agli opportunismi produttivi, aperto invece a una fertile ambiguità nei confronti dei personaggi e delle situazioni messe in scena. Una feconda lezione che è insieme di estetica e di etica, da parte di una protagonista del nostro cinema, che ne definisce la perenne modernità“.

La filmografia di Liliana Cavani 

liliana cavani cinematographe.it
Uno scatto dall’intervista a Liliana Cavani

Cortometraggi 
Incontro di notte (1961); La battaglia (1962).

Documentari   
La vita militare (1961); Gente di teatro (1961); Storia del Terzo Reich (1961); Età di Stalin (1962); L’uomo della burocrazia (1963); Assalto al consumatore (1963); La casa in Italia (1964); Gesù mio fratello (1964); Il giorno della pace (1965); La donna nella Resistenza (1965); Philippe Pétain. Processo a Vichy (1965); Clarisse (2012). 

Lungometraggi 
Francesco d’Assisi (1966); Galileo (1968); I cannibali (1969); L’ospite (1971); Milarepa (1973); Il portiere di notte (1974), Al di là del bene e del male (1977); La pelle (1980); Oltre la porta (1982); Interno berlinese (1985); Francesco (1989); Dove siete? Io sono qui (1993); Il gioco di Ripley (2002); De Gasperi. L’uomo della speranza (2005); Einstein (2008); Troppo amore (2011); L’ordine del tempo (2023). 

Liliana Cavani è non solo regista di film, ma anche d’opera e di teatro di prosa.