Light of My Life: analisi e spiegazione del film di e con Casey Affleck

Un padre e sua figlia si nascondono tra i boschi, dopo che un virus ha sterminato la popolazione femminile. Costretti ad un vagabondaggio continuo, evitano il contatto con altri esseri umani: riusciranno a sopravvivere?

La prima prova da regista di Casey Affleck era stata, nel 2010, Io sono qui!, brillante e folle mockumentary che metteva in scena il presunto brusco cambio di carriera di Joaquin Phoenix, che da attore aveva deciso di diventare – giacca, cravatta, barba incolta e svariate decine di chili in più – rapper. In 9 anni, nella vita di Affleck Jr. sono cambiate molte cose: anzitutto ha superato in popolarità il fratello Ben, personaggio fragile e mai del tutto – cinematograficamente, ma anche esistenzialmente – compiuto; ha poi portato a casa il suo primo Oscar da attore protagonista (per lo straziante Manchester by the Sea, 2016); e si è infine dovuto difendere dalle accuse di molestie sessuali – poi ritirate – avanzate da due sue collaboratrici.

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Tutto questo per dire che Light of My Life è inevitabilmente il risultato di vicende più o meno felici che hanno attraversato quasi una decade di un artista, Casey Affleck, che qui scrive, dirige e interpreta. La storia è quella di un mondo prossimo venturo post-apocalittico in cui un male oscuro ha annientato la popolazione femminile, lasciando un giovane padre e la figlia dodicenne Rag soli contro il mondo, continuamente minacciati da un nemico sconosciuto che li vuole depredare, uccidere e distruggere, secondo la più bieca logica dell’homo homini lupus.

Light of My Life: sopravvivere, al di fuori della civiltà

Light of My Life Cinematographe.itNon si può certo dire che Light of My Life faccia dell’originalità il suo punto cardine: già nella semplice lettura della trama è facile trovare tracce del cuaroniano I figli degli uomini (2006), dell’altrettanto desolato The Road (2009), di The Last of Us (2013) e, perché no, anche di Captain Fantastic (2016). Perché l’obiettivo principale del protagonista è riuscire a proteggere sua figlia e al contempo darle gli strumenti per una futura indipendenza. Per questo, ogni qualvolta Rag commette una leggerezza, si tratti di una giacca troppo appariscente o di una consegna non eseguita, la reazione del padre è estremamente severa. Con punte di sconforto: il tempo stringe, la loro fuga fra i boschi è un lungo peregrinare verso il nulla, le energie del capofamiglia si stanno pian piano consumando.

Scegliendo la via dell’intimismo, Affleck non solo non ci spiega le ragioni passate che hanno portato allo sterminio femminile (parte affidata perlopiù ai flashback, in cui ricorda con dolore il momento in cui la sua partner si è ammalata, indicativamente 12 anni prima), ma si dimostra piuttosto parco – potremmo dire asciutto, o anti-retorico – anche nella rappresentazione del “male” al tempo presente, nel momento in cui cioè si svolge la vicenda: i momenti di stasi e riflessione superano di gran lunga quelli d’azione, e gli unici dialoghi degni di nota sono proprio quelli fra papà e figlia, in una tenda in mezzo al bosco o in una casa abbandonata, mentre si fanno piani per la giornata successiva (dove andare, con quali mezzi, perché) o semplicemente si passa il tempo in attesa del prossimo inevitabile allarme rosso.

Light of My Life: un’avventura d’amore

Light of My Life Cinematographe.itÈ proprio in uno di questi dialoghi – che coincide con l’inizio del film – che lui racconta una confusa favola della buonanotte a lei. Si parla di due volpi, la femmina Goldie e il maschio Art, che salgono sull’Arca di Noè per sfuggire al Diluvio Universale. Rag però, al termine del racconto, protesta: “Doveva essere la storia di Goldie, invece è diventata la storia di Art”, a significare come il genitore non riesca ancora a rinunciare alla salvaguardia della ragazza, che si ribella e rivendica un’identità in un mondo allo sfascio che la costringe a vestirsi da uomo e a tenere i capelli corti per nascondere qualsiasi traccia di femminilità. In modo circolare, il finale del film si fa specchio di quell’incipit. Dopo aver combattuto per la propria sopravvivenza contro tre predatori, padre e figlia trovano rifugio in una piccola casetta.

Lui è malconcio, devastato fisicamente e mentalmente dalla battaglia per la vita che ha dovuto sostenere, e per la prima volta è lei a occuparsi di lui e a gestire la situazione. Controlla lo stato di salute del genitore, procaccia cibo e legna da ardere. I ruoli si sono ufficialmente invertiti, e non si potrà più tornare indietro: Rag ha raggiunto l’autosufficienza, non ha più un ruolo passivo ma è responsabile delle proprie azioni e del tutto conscia dell’accaduto. Di fronte alla confusione del padre, allora, non può che abbracciarlo e tranquillizzarlo: “Va tutto bene papà. È un’avventura d’amore”, proprio come era solita dire la sua compagna – nonché mamma di Rag – di fronte ad un viaggio complesso/scomodo/noioso o ad un’esperienza imprevista dall’esito incerto. Ancora una volta, forse utopisticamente, è l’amore l’unico grimaldello possibile per salvarci dalla barbarie e dalla disumanità.