Le vele scarlatte: spiegazione del finale del film di Pietro Marcello

Il bel film di Pietro Marcello è un'allegoria e una fiaba lirica che, come il romanzo russo a cui si ispira, apre a un'interpretazione simbolica. ALLERTA SPOILER!

Pietro Marcello, ne Le vele scarlatte, sposta la vicenda al cuore dell’omonimo romanzo, opera dello scrittore russo Aleksandr Grin, da una terra d’invenzione le cui caratteristiche richiamano per conformazione e atmosfera la Crimea, alla Normandia del primo dopoguerra. È una Normandia incantata, ma anche brutale, con risacche d’intolleranza ben nascoste dietro l’apparente cordialità dei suoi abitanti. Un falegname di nome Raphaël, le cui grandi mani sono capaci di tutto – il film-poema si apre, non a caso, con un’epigrafe: “I cosiddetti miracoli si possono compiere con le proprie mani–, ritorna dalla guerra malconcio nel corpo e nell’anima. Torna in un paese che non è suo, ma che, durante la guerra, ha ospitato sua moglie. Ad attenderlo trova sua figlia non ancora conosciuta, di nome Juliette, neanche un anno compiuto, e Adeline, la donna che si è occupata della bambina fino a quel momento. La mamma della piccola, moglie di Raphaël, è, infatti, morta durante l’assenza dell’uomo: nel corso del film, si scopre che la giovane donna ha perso la vita a seguito di una violenza sessuale, attuata da parte di uno degli uomini più noti del paese, il gestore di un bar molto frequentato. È proprio l’omissione di soccorso ai danni di quest’ultimo che, in seguito, attira su Raphaël l’ostilità della comunità del paese in cui è tornato a vivere senza tentare alcun reinserimento sociale. Raphaël è e resta corpo estraneo: rispetto al luogo in cui vive, cui non appartiene, e rispetto al tempo, di cui non sembra avvertire i cambiamenti epocali.

Le vele scarlatte: dalla Crimea alla Normandia, una fiaba sulla sacralità della speranza

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Raphaël Thiéry e Juliette Jouan interpretano padre e figlia nel film ‘Le vele scarlatte’ di Pietro Marcello, terzo lungometraggio del regista casertano.  

Raphaël è un artigiano molto dotato e la sua sapienza manipolatoria – il modo in cui riesce a trasformare il legno e a creare oggetti di grande raffinatezza da materiali altrimenti resistenti alla metamorfosi – è fonte di sospetto e, forse, di invidia. Inoltre, vive nella stessa casa – una magione in piena campagna, vicina a un corso d’acqua – con la chiacchierata Adeline, che, per la sua indipendenza e per la sua indifferenza ai codici sociali, viene spesso accostata a una figura stregonesca. Il mago-Raphaël e la maga-Adeline vivono ai margini e rappresentano, ciascuno a proprio modo, l’insubordinazione ai modelli e alle regole di società, la volontà di cambiarne le narrazioni dominanti e i rapporti di potere. Raphaël, nonostante l’apparenza di uomo burbero e poco dimestico coi sentimenti, trasmette alla figlia il valore della fiducia nelle sue possibilità e nell’ascolto di sé come primo motore dell’azione, che mai deve farsi conformazione, e della scelta. Adeline insiste perché la bambina sviluppi una voce: le insegna, infatti, a cantare, metafora della necessità di esprimersi, di farsi sentire, di non mettere a tacere sentimenti, inquietudini, desideri.

L’incontro con la strega e con la promessa del futuro

Un giorno la bambina, che, a causa del suo ambiente familiare ‘irregolare’, è spesso bersagliata dai compagni di scuola, s’imbatte in una vera strega: Pietro Marcello è molto abile nel piegare in senso realistico la radice favolistica della storia senza, tuttavia, rinunciare a evocare elementi e figure della mitologia popolare. La strega – che, poi, altra non è se non una donna ai margini, con pochi peli sulla lingua – assicura a Juliette che, presto, vedrà arrivare una nave dalle vele scarlatte, sulla quale potrà salpare per poi partire per un’avventura, alla volta di terre sconosciute, alla ricerca di quella pienezza del vivere che la sua condizione di isolamento le sta negando. Le vele scarlatte traducono in termini allegorici l’aspirazione, il sogno, il desiderio di altrove, la via di fuga verso una felicità negata dalla quotidianità, ma non per questo impossibile. Da quell’incontro con la strega, Juliette comincia ad alimentare e a custodire la fede nella predizione ricevuta, nella promessa di una felicità a venire priva di compromessi.

Tale felicità sembra piombarle letteralmente addosso dal cielo nella forma di un velivolo scalcagnato, da cui scende Jean, un avventuriero – uno straniero, come suo padre – che vive nel e del suo aereo. Juliette riconosce in lui un’incarnazione del proprio desiderio d’amore e, senza indugi, gli va incontro. Juliette non è passiva, ma attiva costruttrice del suo destino: si è identificata con le grosse e consumate mani paterne, le ha interiorizzate. Nonostante ciò, a causa di un piccolo battibecco – Jean ha, infatti, preso in paese informazioni su di lei e questo è, per lei, motivo, più che di risentimento, d’insicurezza –, non si risolve immediatamente a manifestare allo straniero la volontà di stringere un legame, spingendolo, con la sua ritrosia, ad andarsene. Quando, dopo un po’ di tempo, riappare – sempre dal cielo, a bordo del suo aereo malmesso –, nell’atterraggio si ferisce, ma le cure di Adeline sembrano restituirgli subito la capacità ci camminare.

Le vele scarlatte: il messaggio femminista e il finale che annoda dimensione spirituale e sociale

Louis Garrel interpreta Jean, lo straniero che viene dal cielo.

Tra la partenza e il ritorno di Jean, Juliette sperimenta un tentativo di stupro da parte del figlio dell’uomo che, anni prima, aveva usato violenza a sua madre: lo schema si ripete perché la morsa predatoria degli uomini sulle donne è tacitamente accettata dai pari, in seno a una società che accoglie la sopraffazione come una legittima pratica di subordinazione del femminile al maschile, come un esercizio di controllo e di imbrigliamento terroristico delle donne. Nel sottrarsi alla volontà altrui di farla oggetto – questo fanno le streghe di ogni epoca: ribellarsi a chi pretende che le donne debbano corrispondere il desiderio maschile, feticistico e disarticolante, a chi pretende che le donne debbano essere solo quello –, Juliette rinnova la fede alla promessa delle vele scarlatte: lei non cederà alle lusinghe di un uomo, se con quest’uomo non potrà stabilire una relazione fondata sulla parità nella differenza.

Il ritorno di Jean, avvenuto dopo che quest’ultima ha perso il padre – è finalmente pronta, dentro di sé, a sostituirlo –, si delinea come la conclusione di un’attesa tanto sognante quanto risoluta: mai bisogna smarrire la fede nell’arrivo delle vele scarlatte. Tuttavia, il finale ci si presenta come ambiguo: Juliette, seduta sulla riva del fiume, legge da sola un testo poetico, musicabile, dal titolo Hirondelle (La rondinella), scritto da Louise Michel, autrice e insegnante francese che prese parte all’esperienza della Comune di Parigi e che si spese tutta la vita per la lotta femminista. Di Jean, accanto a Juliette, non v’è traccia e, nello spettatore, s’insinua il dubbio che il suo atterraggio di fortuna e la successiva miracolosa guarigione siano eventi solo sognati, non realmente accaduti. L’accento va collocato sull’utopia come dimensione interiore, non sempre esteriorizzabile o concretizzabile: se anche le vele scarlatte non raggiungeranno mai i nostri lidi, occorre ricavare sempre per loro uno spazio dentro di noi. La tensione verso l’aspirazione a un progresso – personale, prima, e, poi, di conseguenza, sociale – è ciò che ci umanizza e che movimenta il mondo, lo emancipa dai suoi gioghi. A questo servono le streghe: a raccomandarci di non farci andare bene tutto.