Io sono l’abisso: la spiegazione del film di Donato Carrisi

ALLERTA SPOILER! Proviamo ad analizzare Io sono l'abisso, il film di Donato Carrisi al cinema dal 27 ottobre 2022.

Con Io sono l’abisso Donato Carrisi dona vita ai personaggi che albergano all’interno del suo omonimo romanzo per riportare sul grande schermo un film che si incastra in una moltitudine di simboli e di interrogativi; un thriller fatto di domande, uomini senza volto e senza nome, donne dal passato oscuro e bambine costrette a diventare donne in fretta.

Facendo leva sulla presenza dell’acqua che trasforma e deforma, incanalando la narrazione verso le colpe umane e dilatando il mistero per mezzo di una fotografia caravaggesca, Carrisi si diverte anche in questo caso a lasciare aperto il finale di Io sono l’abisso, torturando gli spettatori con una serie di domande, tra cui forse la più insistente riguarda l’identità di Diego.
Nel tentare di fare ordine tra gli eventi, cerchiamo innanzitutto di capire i cardini di questa storia di ossessione e morte che parte, essenzialmente, da un trauma.

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Io sono l’abisso: cosa succede nel film di Donato Carrisi? Chi è l’uomo della spazzatura?

Il regista inaugura la pellicola mostrandoci un bambino che si reca in una piscina insieme alla madre. È una donna fredda e spietata: l’inquadratura si focalizza sulle mani del piccolo che cercano, invano, quelle della genitrice. Poi quel tuffo obbligato in piscina: i braccioli sono stati palesemente manomessi e il bambino scivola giù tra le acque torbide, non prima di aver supplicato “aiuto” annaspando, mentre la donna fa presto a rivestirsi e a togliere di mezzo ogni traccia per poi sparire via.
È morto? Sembrerebbe così, ma eccolo che risale su dall’abisso e ciò che vediamo nella sequenza successiva è il risultato di un passato crudele, che ci viene mostrano un po’ alla volta grazie al sapiente uso di flashback.

Quel bambino che stava rischiando di morire è cresciuto fino a diventare un serial killer. Carrisi nega volontariamente i nomi, definendo il protagonista “uomo della spazzatura” e inoltrandoci nella sua psiche in cui la selezione umana avviene partendo dalla pattumiera e da ciò che essa contiene: “Le persone dicono bugie, ingannano. La spazzatura no, la spazzatura non mente”, questo è il pensiero che sintetizza il suo agire; dai rifiuti egli capisce i segreti della gente.

Fisicamente lo riconosciamo da una cicatrice che ha sul capo, dovuta all’incidente che ha subito. Capiamo che si tratta di quel bambino per i problemi che si porta appresso anche e soprattutto a livello comportamentale e per certi discorsi che udiamo in sottofondo circa le caratteristiche della madre. Per qualche ragione resta calvo e questo è una sorta di biglietto da visita, nonché un ulteriore mezzo di trasformazione.

Se da adulto quest’uomo adesca donne di mezza età per poi ucciderle, avendo probabilmente come movente la violenza subita dalla madre e quindi appellandosi mentalmente a un’idea di giustizia che solo lui concepisce, da bambino la sua indole passivamente aggressiva esplode soprattutto in una scena in cui infilza il pancione dell’assistente sociale con un ferro da calza. Lo fa dopo che una voce l’ha fomentato, la stessa voce che si nasconde sempre dietro una porta verde e che lo accompagna fino all’età adulta. A tal proposito, è chiaro fin da subito che dietro quella porta non si nasconda nessuno e che sia solo il frutto di un’allucinazione: il protagonista ascolta ciò che si identifica perlopiù come una sorta di suo alter ego negativo, un grumo di paure che lo spinge ad agire negativamente.

La ragazzina dai capelli viola e la cacciatrice di mosche

Accade però anche che questo alter ego non influisca sul bene che l’uomo della spazzatura è in grado di fare e in questa occasione entra in gioco la ragazzina dai capelli viola, quella che si tuffa nel lago perché rifiuta a vita a seguito di una situazione opprimente e scomoda che la costringe a prostituirsi, ricattata da un coetaneo che la minaccia di diffondere video compromettenti. Rinchiusa in una villa apparentemente perfetta, ignorata dagli adulti, si abbandona alle acque del lago appuntandosi il numero del padre sulla gamba, così da farsi riconoscere una volta defunta. Ma è in questo frangente che l’abituale patina del male viene deflagrata dal bene: l’uomo la vede e la porta in salvo, per poi scappare via, come se non stesse riconoscendo le sue stesse azioni.

Nell’atto di salvataggio, però, si lascia dietro una prova del precedente omicidio; sarà una scusa per tornare a trovarla e a osservarla, nonché uno spunto per introdurre la figura della cacciatrice di mosche, una donna dal passato tormentato, che evidentemente ha perso qualcuno e adesso conduce una vita diversa da quella di prima. È una persona considerata matta dal resto della società, palesemente riconosciuta da chiunque (“Si, sono la madre” è la risposta che sentiamo spesso dinnanzi all’osservazione “ma lei è…”), il cui retaggio passato ci viene consegnato attraverso una scena che ce la restituisce trafelata ed esteticamente più curata, mentre arriva all’androne di un ospedale chiedendo al marito come stanno i ragazzi. Ma lui la guarda e non risponde, mentre svela informazioni all’agente che lo sta interrogando circa il rapporto tra i due ragazzi citati. Dalle risposte di lui, il quale asserisce che i due giovani (un ragazzo e una ragazza) si conoscevano da un determinato lasso di tempo intuiamo che non sono fratelli ma fidanzati o magari semplici amici.
La moglie insiste con la domanda e così scopriamo che la ragazza è in sala operatoria. “E Diego? Dov’è Diego?”, “Lo stanno cercando” è la risposta. Ma chi è Diego? Un quesito difficile da sciogliere, poiché dall’apprensione della cacciatrice sembrerebbe essere il figlio e/o avere con lui un legame più stretto rispetto a quello che ha con la ragazza, la cui situazione – pur sempre grave – sembra quasi passare in secondo piano.

Io sono l’abisso: chi è Diego? Un interrogativo che ci assilla fino alla fine

io sono l'abisso spiegazione Cinematographe.it

L’identità del marito della cacciatrice, almeno, sembra piuttosto palese, dal momento che in una scena si accenna a un’intimità passata, in un tempo in cui sfruttavano la pausa lavorativa per fare l’amore. L’identità di Diego, invece, resta labile e collegata a un’altra scena, posta verso la fine. Se all’inizio infatti ci viene mostrato il protagonista da bambino infliggere un colpo potenzialmente mortale alla donna (in stato d’attesa), più avanti quella stessa donna ha dato alla luce un bambino e il nome che leggiamo sul cullino è proprio Diego.
Tuttavia non ci è concesso vedere il volto della donna poiché l’autore ce la mostra sempre e solo di spalle o adoperando inquadrature che vanno dal collo in giù, proprio per non farci intuire di chi si tratta. Potrebbe quindi essere la cacciatrice come non potrebbe e, in un’ipotesi papabile ma non accertata, Diego potrebbe essere morto per mano di un misterioso killer, in un incidente o, peggio ancora, potrebbe essere stato lui l’artefice del male e quindi essere poi scappato via.

Più che darci risposte, Donato Carrisi sembra divertirsi a scombussolare lo spettatore, inserendo questo misterioso personaggio tra le insenature della trama e creando dei collegamenti quasi invisibili con i protagonisti della pellicola; collegamenti che cesellano i caratteri e le motivazioni degli attori, senza comunque definirli.
Chi è quindi Diego? La risposta probabilmente rimarrà ignota e apre la porta a diverse fantasticherie.

Il male è il motore di tutto

Il perno della narrazione resta, volente o nolente, l’uomo della spazzatura. La sua esistenza funge da mezzo di contrasto per le vite altrui, facendosi altresì lavagna in cui appuntare un grafico in cui il male ricevuto è direttamente proporzionale a una dose di male da restituire.
Il protagonista non è che un bambino innocente che viene tradito dall’unica persona al mondo che avrebbe dovuto amarlo, sua madre. Il trauma subito lo trasforma in un adulto violento, che non a caso uccide solo donne sole e dai capelli biondi, signore che potrebbero avere l’età della mamma e che ne rispecchiano le caratteristiche. Il percorso che fa è quello di una giustizia privata e personale che sfocia nel femminicidio e le cui radici non vanno rintracciate solo nel vissuto del killer ma anche in quello della donna che lo ha lasciato annegare. “E se qualcuno ti chiede chi è stato tu rispondi, è stato Miki”: è una frase che ascoltiamo spesso lungo la visione di Io sono l’abisso e che ci viene esplicata solo verso la conclusione: Miki era il soprannome del padre di Vera (la madre del killer), che da piccola la picchiava.

Il male, quindi, è un circolo vizioso ed è interessante notare come Carrisi non sia tanto intenzionato a individuare il colpevole degli omicidi (le cui fattezze sono note fin dal principio) quanto il movente insito nei traumi subiti. Inoltre, l’autore procede per cerchi concentrici, mostrandoci diversi livelli di violenza e il modo in cui essa modifica in peggio la vita dei protagonisti.
Se l’uomo della spazzatura, che ha sofferto fin da piccolo, rappresenta l’apice del male poiché arriva a uccidere i suoi simili, la ragazzina dai capelli viola si trova in un limbo poiché è costretta alla prostituzione per evitare la gogna pubblica e allo stesso tempo patisce l’indifferenza da parte dei genitori, i quali dovrebbero invece tutelarla. Usando come base queste storie Carrisi introduce le tematiche della pedofilia, del femminicidio, della cyberbullismo.
Nella figura della cacciatrice, rispetto alle altre due già esaminate, si coagula il trauma subito in età adulta e sfociato in una pazzia consapevole. Palesemente privata di un affetto a lei carissimo, questa donna non riesce a darsi pace, ma la sua ossessione sfocia in qualcosa di positivo per gli altri: aiutare donne vittime di violenza coniugale.

Il male però, in Io sono l’abisso, sa anche fare involontariamente del bene, creando un rapporto di amicizia platonica tra anime in pena, una sorta di connessione astrale che cerca di colmare i vuoti e di risarcire qualcuno della violenza ricevuta.

Io sono l’abisso: analisi e spiegazione del film di Donato Carrisi

Non è un caso, poi, se la vicenda è ambientata in un paesino sul lago di Como, con l’acqua che domina ogni inquadratura. Non è un’acqua purificatrice, bensì è putrida, è liquido nel quale morire, abisso dal quale emergono cadaveri o in cui immergersi per sottrarsi alla vita. È, anche quando fuoriesce da un allarme antincendio, esageratamente viscosa e abbondante, al punto che ci si potrebbe affogare. E anche in tal caso non lava, ma si lascia edulcorare dal sangue di morte che segna la fine di un rapporto proprio nel frangente in cui sarebbe potuto iniziare.

Io sono l’abisso, in ultima analisi, si diletta a lasciare sul fondo diversi abissi, giusto per ricordarci che siamo tutti frangibili e soggetti ai traumi, quindi a ferire inconsapevolmente. È come se volesse invitarci a capire il perché della violenza, prima ancora di condannarla. Forse, velatamente, un modo per fare del bene a chi riesce solo a fare del male.