In cerca di Bobby Fischer: la straordinaria storia vera del piccolo campione di scacchi al centro del film
Genio e sregolatezza connotavano Bobby Fischer, il primo campione del mondo di scacchi statunitense.
In cerca di Bobby Fischer è un film del 1993 di Steven Zaillian ispirato alle vicende reali dello scacchista Joshua Waitzkin (Max Pomeranc). Una volta scoperto il talento innato del piccolo per il gioco, la famiglia decide di fargli prendere lezioni dall’istruttore Bruce Pandolfini, che ne paragona le doti a quelle del campione statunitense Fischer. Da qui il titolo di In cerca di Bobby Fischer attribuito all’opera, focalizzata sulla figura di Joshua. Ma, allo stesso tempo, capace di ricordare le gesta della leggenda americana, un personaggio propenso a parecchio le masse, tradito da un carattere “intrattabile”.
Da una parte Bobby Fischer aveva un quoziente intellettivo ben al di sopra della media, ciò che si dice un vero genio, otto volte consecutive campione americano e primo statunitense campione del mondo. Un prodigio il cui nemico numero uno era proprio sé stesso: disturbato, antisemita, paranoico, verbalmente violento e particolarmente asociale, era una mina vagante. Durante le partite più importanti disputate in carriera arrivava spesso in ritardo o esprimeva lamentele assurde, del tipo lamentarsi per il rumore emesso dalle telecamere.
In cerca di Bobby Fischer: un genio dal carattere “intrattabile”
Lati caratteriali in apparenza opposti, in realtà complementari: come spiegò un giornalista del Guardian, “la stessa ossessione che lo aveva reso un grande giocatore di scacchi lo ha reso un essere umano intrattabile”.
A detta dei più, le improvvise sfuriate dipendevano dalla sindrome di Asperger. All’epoca, però, tutti quei suoi comportamenti strambi e ossessivi finirono nel generico calderone della “genialità”. Sminuì il problema persino uno psichiatra, interpellato dalla madre di Bobby, Regina, preoccupata poiché suo figlio, malgrado giovanissimo, passava intere giornate giocando a scacchi (muoveva sia i pezzi bianchi sia neri).
Tenne le prime partite all’età di 6 anni e prese subito le sfide sul serio. In teoria il padre era Gerhardt Fischer, biofisico tedesco conosciuto dalla madre a Mosca, la stessa città dove, nel 1933, convolarono a nozze ed ebbero una figlia, Joan, che diventerà una delle pioniere americane nell’insegnamento dell’informatica. Eppure, a livello biologico, il padre di Bobby Fischer era Paul Nemenyi, un rinomato matematico e fisico ungherese, salito alla storia per via delle ricerche nella meccanica del continuo culminate nella formulazione di un teorema.
La mente brillante contraddistingueva pure mamma: nata in Svizzera da una famiglia di origini ebraiche, conseguì la laurea in Medicina e recitò un ruolo politicamente attivo. Addirittura, sul suo conto prese informazioni l’FBI, che sospettò fosse una spia insieme a Nemenyi. Appena 15enne, Bobby conquistò il primo titolo nazionale di scacchi e, l’anno successivo, la madre lo abbandonò, proprio quando lui aveva bisogno di un supporto per sopportare le assillanti pressioni mediatiche. Il traumatico evento contribuì ad acuirne l’antisemitismo e l’odio nei confronti delle donne.
Nell’agosto del 1972 Bobby Fischer si laureò campione del mondo, battendo il sovietico Boris Spasskij, in quella che passò alla storia come la “partita del secolo”. Il successo mise fine all’egemonia sovietica, che perdurava da 24 anni. Nel 1975 rinunciò a difendere il titolo, dopo essersi visto respingere alcune richieste di modifica al regolamento, perché era convinto ci fossero sotto imbrogli e gli avversari lo spiassero. Da lì in poi non partecipò più a nessun torneo.
A due decenni di distanza dalla celeberrima sfida contro Spasskij venne organizzata “la rivincita del XX secolo”. Il Dipartimento USA glielo voleva impedire, tanto da aver emanato un documento, ma Bobby Fischer ci sputò sopra. A causa del gesto gli fu messo un mandato di cattura internazionale, fino all’arresto in Giappone nel 2004. Provvidenziale fu l’intervento del Governo islandese, che gli concesse l’asilo politico avendo permesso alla capitale Reykjavík di essere al centro delle attenzioni globali durante il Mondiale del 1972. Una libertà goduta poco, poiché morì nel 2008, all’età di 64 anni.