Full Metal Jacket: 30 anni di un capolavoro tra politica, filosofia e realismo

Un film per estrapolare la violenza, per capire davvero cos'è la guerra; un film che insegna e che dipinge lo strazio non solo di una generazione, ma anche dell'umanità.

Il 26 Giugno 1987 è una data fondamentale nella storia del cinema perché usciva per la prima volta nelle sale italiane Full Metal Jacket, uno dei film più importanti sulla Guerra del Vietnam ed ennesima prova della maestria e del genio di Stanley Kubrick.

Tratto dal romanzo The Short-Timers di Gustav Hasford (co-sceneggiatore del film assieme a Kubrick e Michael Herr), partì in sordina al botteghino, causa anche l’uscita limitata a sole 215 sale, per poi entrare nella top 20 solo alla fine di quel 1987, e anche la critica ci mise un po’ prima di giudicarlo un capolavoro assoluto.

Girato in Inghilterra, sopratutto nelle aree di Norfolk, Suffolk, nonché in diverse zone di Londra, Full Metal Jacket portò all’estremo lo sviluppo di alcuni dei temi più cari a Kubrick, su tutti i concetti di ombra, di inconfessabile, di nascosto nell’animo umano, ma anche una profondissima elaborazione del concetto storico e sociale di violenza.

R. Lee Ermey, il vero Sergente del Corpo dei Marines dal 1962 al 1972. In Full Metal Jacket è il Sergente Hartman

Full Metal Jacket

Il film lanciò la carriera di R. Lee Ermey, chiamato a interpretare il Sergente Hartman, e come è noto, Ermey Sergente del Corpo dei Marines lo era stato sul serio, servendo tra i fucilieri di marina dal 1962 (appena diciassettenne) al 1972, anno in cui fu congedato a causa delle numerose ferite.

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Ermey ha recitato in seguito in Mississipi Burning, Toy Soldiers, The Rift, Seven e Non Aprite quella Porta – L’Inizio. Tuttavia nella memoria collettiva il suo volto e la sua voce saranno sempre legati in modo indissolubile alla ferina figura di questo distruttore e ri-costruttore di menti e corpi, una sorta di essenza di tutto ciò che il mondo militare moderno è, fucina di individui non distinguibili creati per un solo scopo: uccidere.

Seppur ispirato a grandi linee al Sergente John Stryker interpretato da John Wayne in Sands of Iwo Jima, il personaggio di Ermey se ne differenziava in modo pressoché totale, livellando ogni aspetto positivo o paterno dalla figura di Stryker e lasciando posto esclusivamente al portatore di fanatismo, all’alienante scudiscio mentale e fisico capace di portare uomini alla pazzia o alla disperazione.

Il cast di Full Metal Jacket e la loro interpretazione di personaggi come Palla di lardo o Joker capaci di ritrarre i diversi aspetti della società

Il film fu il trampolino di lancio per attori come Matthew Modine (Joker), Vincent D’Onofrio (Palla di Lardo), Arliss Howard (Cowboy) e Adam Baldwin (Animal Mother).
Ognuno dei personaggi presenti nel film si fa portatore di un messaggio e di una particolare visione dell’individuo e della società, sovente creando tra di loro dei collegamenti che a prima vista ben pochi colsero.

Se infatti Joker, agli occhi di tutti, fu catalogato come l’individuo libero, che cerca in tutti i modi di salvare la propria identità dalla macchina dell’omologazione dello Stato e dalla Storia (non sempre con successo), i personaggi di D’Onofrio e Baldwin furono genialmente connessi da Kubrick quali prove viventi dei due diversi destini che spettano a chi si lascia divorare dalla macchina bellica. O soccombere e autodistruggersi (come Palla di Lardo) o diventare un drogato di adrenalina, un efficiente e letale killer come Animal, sempre con il dito sul grilletto e che concepisce la propria vita esclusivamente come quella di un soldato sul fronte di guerra, un “duro” per usare la definizione del Sergente Hartman.

Con Full Metal Jacket Stanley Kubrick mette in mostra la violenza fisica e psicologica della guerra

Ecco allora che Full Metal Jacket ci porta dentro un pozzo senza fondo, ci guida come nessun altro film prima o dopo ha saputo fare, conducendoci verso il militarismo, il fanatismo e l’amoralità che assolvono se stesse indossando un’uniforme, in quell’ombra dell’animo umano che Jung definì Shadow, che da personale, singola, passa a essere fenomeno collettivo.

Perché dietro i crimini di un Tenente Calley a My Lay vi era un paese, un sistema culturale, un’identità collettiva per la quale individui come lui erano semplicemente il prodotto di una catena di montaggio che era cominciata molto prima del campo di Paris Island.

Stanley Kubrick ideò un iter narrativo nel quale la violenza, il suo utilizzo da parte dello Stato e dei sistemi di potere, veniva eviscerata, analizzata, mostrata, senza mai nascondere come quella psicologica fosse maggiore di quella fisica (come in Arancia Meccanica), creando un racconto che è un elogio della forza del singolo a elevarsi dalla massa e insieme una condanna a quanti si perdono dietro la vanagloria e l’autoreferenzialità di quest’operazione (come in Barry Lyndon).

La sua è la violenza tra gli uomini, ma anche la violenza della storia, scritta col sangue da sempre e per sempre, dove si mischiano elementi religiosi come la mistica sado-maso-mortuaria (come in SpartacoOrizzonti di Gloria).

La straziante colonna sonora di Full Metal Jacket opera della figlia di Kubrick

Full Metal Jacket (titolo connesso alle pallottole incamiciate usate dai fucili di tutto il mondo), ebbe nella figlia di Kubrick (Vivian) l’autrice della straniante e oscura colonna sonora, composta nella sua quasi completezza con un campionatore Fairlight CMI.

Per il resto fu lo stesso regista a selezionare i pezzi dell’epoca, che vanno dalla celebre hit di Nancy Sinatra These Boots are Made for Walking a Surfin Bird dei Trashmen a Paint it Black degli Stones. Tutto questo perché per Kubrick fu sempre importante il volere ambientare il suo elogio della violenza dell’anima e della storia, nel pantano vietnamita, dove gli Stati Uniti smisero di essere gli eroi e divennero dei folli, impauriti, cattivi sempre a metà tra consapevolezza e inconsapevolezza dell’errore commesso nel mandare così tanti giovani, cresciuti a canzoni pop, televisione e libertà, a morire in nome di un qualcosa di indefinito.

La clip Dieci seghe al giorno è il momento più politico di Full Metal Jacket

E alla fine, al di là dell’incredibile abilità di Kubrick, del suo sovvertire le regole del montaggio classico, nel lanciare l’idea della soggettiva pura durante le scene di combattimento, nel confezionare un racconto tragico e comico allo stesso tempo, nella straordinaria capacità di creare e dominare dialoghi e scene… beh se dobbiamo scegliere il momento più politico, più alto e che meglio sintetizza l’essenza di Full Metal Jacket, non possiamo che mettere questa clip che decostruisce e distrugge la retorica della dolce morte, mostrandoci l’essenza egoistica teorizzata da Kubrick qui come in tutta la sua filosofia cinematografica.