Da James Franco a Bertolucci: 10 corti sul futuro del cinema

La mostra del cinema di Venezia è un unico corpo in cammino, osannato e consumato da centinaia di migliaia di visionari che di anno in anno ormeggiano il Lido portando spettatori di tutto il mondo ad entrare nella loro immagine arbitraria. Alberto Barbera, direttore artistico, per i 70 anni della mostra ha invitato 70 registi da tutto il mondo, che andassero ad omaggiare ed esplicitare in cento secondi il cinema, Venezia e il futuro che ci si prospetta per l’arte moderna.

Ecco da cosa nasce Venezia 70 – Future Reloaded, un tripudio che ha visto incunearsi tra i fotogrammi nomi quale Bertolucci,  Kim Ki-Duk, Ermanno Olmi, Aleksei Fedorchenko, Catherine Breillat, James Franco. Oggi, abbiamo pensato di proporvi una breve panoramica su quelle rappresentazioni che tra tutte si sono distinte nel loro sincerarsi ad una dinamica o un modello sociale e visivo.

10 visioni diverse sul futuro del cinema

Catherine Breillat, straordinaria e sguardo maledetto del cinema odierno, ci porta in un bar qualsiasi, dove lei è la voce fuori campo e un corpo presente in un mondo che non interagisce con lei, in cui declama la mercificazione dell’arte e del suo perpetuo legame con la moneta, vile e usurpatrice che ad oggi non ha più nemmeno la possibilità di poter ingraziarsi il merito di produrre arte poiché la sua contemporaneità è schiava dell’autoproduzione di denaro, esso riproduce null’altro che se stesso. Il futuro del cinema, è solo una domanda alla quale lascia rispondere lo spettatore.

Rama Burshtein ci fa assistere ad una scena dispotica, in cui un ragazzo dalle dolci fattezze è incitato ad aprire la bocca, la voce è dapprima un invito quasi sessuale. Lui resiste, serra le labbra come se una forza dall’interno lo stesse provocando, lentamente sembra cedere. La voce diventa sempre più raggelante e ad un certo istante il suo volto si distende mostrando ciò che allo spettatore non era dato conoscere.

Peter Ho-sun Chan mette da parte ogni spunto morale, ogni rimpianto per cedervi alla nostalgia più pura, quella che ogni cineasta ha provato una volta nella vita. Nei suoi simbolici cento secondi sfoglia un album fotografico di registi che sanno del futuro di questa arte maledetta molto più di chi ci prova tutt’ora, artigiani geniali come Fritz Lang, come Rossellini, Griffith, che avevano negli occhi il tempo declinato sia al passato che al futuro.

Amiel Courtin-Wilson porta la cinepresa per strada e inquadra un passante o un semplice artista del sottosuolo che con la sua armonica rilegge le note funeree dell’Amazing Grace, il tutto senza filtri, aggiunte o grandi parole, tranne i saluti finali che il regista ha pensato bene di lasciarci gustare poiché il suddetto musicista gli confida che non avrà la possibilità di rivedere la sua performance poiché non legge giornali né tanto meno guarda la televisione.

Il corto di James Franco è un delirio altisonante, il cinema si riappropria di quella distruzione che non è del tutto incomprensibile, anzi viene posta in antitesi all’accademia, alle scuole d’arte, è la subordinazione dell’arte che va riportata nella sale, la necessità di chi può sperimentare senza quel sotto-testo professionale che sottende la capacità di genere arte in serie, così da far implodere una forma che non vuole sagome, strutture o precisazioni poiché smetterebbe di essere critica, sguardo ed estetica.

Haile Gerima condensa in una manciata di minuti tutto il suo disagio e la sua lotta per riportare in auge il cinema africano, che non ha ricordi, per cui non può avere un futuro chiaro; è tenuto in ostaggio dalla storia, ha bisogno di tutte le menti possibili che celebrino ed esorcizzino il passato inglorioso di questa terra per poter divincolarsi dalle schiavitù che continuano a trafiggerla e guardare al futuro con il disincanto di un pacifico presente.


Samuel Maoz è un genio assoluto poiché mette in atto un’ironica prosopopea in cui il cinema è un dolce anziano tenuto in vita dalle macchine, che guarda al suo passato con irriverenza e rimpianti legati al suo colore, alla sua voce, sembra voler mettere in atto un’eutanasia che in realtà il progresso gli ha già impartito, forse non volendo. Ma ecco che fiumi di pellicole fuoriescono dalle sue vene, come una necessità di essere al passo con i tempi, la pellicola muore per far fiorire il digitale. Ed è proprio quando la fine sembra intercedere che la visuale si allarga per mostrare che quella scena, la sua morte, o la sua non vita non è altro che un video riprodotto all’infinito in un museo del futuro, dove far conoscere e comprendere la svolta e la caducità dell’arte moderna.

Edgar Reitz ci fa assaporare il retrogusto amaro del dopo cinema, quando la proiezione è conclusa e la sala è del tutto vuota. Un uomo resta impassibile e con i suoi tempi raggiunge la folla al di fuori di quel mondo, dove sono tutti schiavi di una luce virtuale perenne, non commentano, non giudicano, ma si perdono quel malinconico lascito che lo spettacolo ha dato al protagonista che, sconsolato, si ferma in un bar per scrivere un messaggio in cui ammette di essere stato al cinema e di aver pianto. Ed è Kafka a scrivere.
Ancora un volta è un’aspra critica a convergere nei corti. Il digitale ha ucciso la pellicola? Il cellulare ha ucciso il cinema?

Walter Salles biforca i suoi intenti mostrando da un lato il rapporto viscerale e pressoché inesistente tra una madre e una figlia e la folla in agguato a piazza San Pietro prima dell’elezione del papa. Abbiamo da un lato il marcatissimo uso della tecnologia, tutta la piazza è intenta a fare foto chi con telefono, chi con tablet, nessuno sta smettendo di immortalare la scena dell’uscita del nuovo pontefice dalla sua regale balconata. Poi la prospettiva si posta su una ragazza, ci racconta che non ha mai conosciuto la madre poiché è andata via di casa quando era ancora in fasce. L’unica cosa in suo possesso è una sua lettera in cui afferma di non possedere né una foto, né un video di lei, in cui la madre osserva da lontano sua figlia e che la sua immagine è un nastro che si ripete, che vede e rivede. La totale assenza di comunicazione reale e digitale e la sua presenza ostentata comporta ciò: lei, figlia dell’assenza è un essere alla ricerca di sé che lotta affinché tutto ciò che le appartenga le venga restituito. La folla, figlia della testimonianza, dell’attimo da immortalare, non avrà nulla da restituire al mondo, non avrà ricordi reali.

Infine siamo a Bertolucci, Scarpette Rosse è il suo lavoro, in cui con una telecamera parallela al suolo romano, ci porta tra le difficoltà estreme che un uomo in sedia a rotelle affronta per potersi spostare in modo disarticolato e sconnesso tra le impervie vie della capitale. Il cinema è un passo di danza, è un incedere anche poco elegante tante volte, è una sfida continua, è una pugnalata sarcastica o una panoramica infinita dove chiunque abbia una voce, un colore, dal più cupo al più luminoso ha saputo riflettere con lucida sintesi mostrandoci le innumerevoli e strabilianti direzioni che il cinema potrà accogliere sul suo tracciato.