Cinematographe.it presenta Martin Eden di Pietro Marcello

La nostra presentazione a tutto tondo di un'opera che è sperimentazione senza confini, trasposizione verace dell'opera più amata di Jack London.

Una realtà crudele, disperata, analfabeta e tetra, eppur lacerata dalla luce della conoscenza, dalla voglia di cambiare il proprio status, assorbendo come una spugna il mondo attorno, quasi senza distinguere tra bene e male, tra luci e ombre. Martin Eden di Pietro Marcello è un pugno puntato al volto, perennemente in procinto di sciogliersi in una carezza di poesia. Un’opera che prende spunto dalla letteratura per rinnovarsi, raccontarci e farci meravigliare con una storia provocatoria sia intellettualmente che cinematograficamente.

Partendo dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Jack London, pubblicato nel 1909, il regista campano Pietro Marcello ridisegna i lineamenti di un personaggio istrionico e tormentato come Martin Eden, impiantandolo in una Napoli senza tempo, in cui tutto il Novecento si condensa armoniosamente.

Attraverso la sua opera è come se il regista lanciasse un urlo nel suo presente, qui e ora, annientando i suoi contemporanei, con un’eco che fluttua verso il passato, attingendo dalle immagini d’archivio come fa la mente coi ricordi. Perché Martin Eden è innovazione e fiducia nel passato, è surrealismo e neorealismo che si amalgamano, è uno scoglio conficcato lungo il panorama del Golfo di Napoli… e solo Dio sa che forma gli darà un giorno il mare.

Martin Eden: dall’individualismo al collettivismo

Martin Eden

Presentato alla 76ª Mostra del Cinema di Venezia, il film di Pietro Marcello è sperimentazione senza confini: il disegno di un nuovo modo di fare cinema che tenta di inglobare le più disparate angolazioni di una Terra – l’Italia in generale e Napoli in particolare – che potremmo dimenticare, di un’ideologia instabile, un modus vivendi variopinto e incerto e uno spazio sporco di colori pastello che virano verso immagini ingiallite e in bianco e nero, immagini che si scollegano dalla storia individuale per condurci verso i meandri della collettività, in una storia che inizia a scriversi addosso a chi la guarda, pur senza averla direttamente vissuta.

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 4 settembre 2019 da 01 Distribution, Martin Eden è prodotto da Avventurosa, fondata nel 2009 da Sara Fgaier e dallo stesso Pietro Marcello per realizzare La bocca del lupo. Tra i produttori anche a IBC Movie di Beppe Caschetto, la Match Factory Productions (Vergine Giurata di Laura Bispuri, Il traditore di Marco Bellocchio) e chiaramente Rai Cinema. Una produzione coraggiosa, che porta nuovamente sotto i riflettori il romanzo più grande di Jack London (e con esso tutti i sottotesti che include) e dà ulteriore spinta a un autore che fin dal principio della sua attività si è dimostrato legato al mondo di cui è figlio, artefice di una cultura che non tiene conto del tempo, che non vuole dare punti di riferimento, forse nel tentativo di fomentare una qualche forma di immortalità.

Complice il successo festivaliero, Martin Eden, che di suo resta pur sempre un’opera di nicchia per spettatori raffinati e attenti, ha incassato 70.466 euro al box office settimanale, piazzandosi al quinto posto e reggendo abbastanza bene il confronto con gli attesissimi e inevitabilmente in testa It – Capitolo 2 e Il Re Leone (ma anche il tenero ed educativo film per tutta la famiglia Mio fratello rincorre i dinosauri). Una vittoria che va a sommarsi a quella di altri registi giovani ed emergenti che adagio stanno cambiando il volto del cinema nostrano, talvolta strizzando l’occhio alle produzioni d’oltreoceano e tal altre, come in questo caso, al nostro stesso passato.

Martin Eden: l’omaggio di Pietro Marcello alla Cultura e la lettura del presente

Martin Eden Cinematographe.it

Raccontando la storia di un marinaio (Martin Eden, interpretato da Luca Marinelli) che, dopo il fortuito incontro con una giovane borghese, Elena (Jessica Cressy), rimane ammaliato dalla sua bellezza e dalla sua cultura fino a coltivare il sogno di istruirsi e diventare scrittore contro tutto e tutti, Pietro Marcello rende omaggio alla poetica Londoniana e, molto più in generale, alla Cultura, intesa come una conquista, una meta psicologica da raggiungere per comprendere a fondo la vita, per emanciparsi e risultare una persona migliore, anche solo agli occhi esterni.
Martin Eden è allora una critica alle perversioni idealistiche che durante il Novecento attraversarono fino al midollo gli intellettuali; è uno sguardo tagliente su chi prima frena, disdegna, infanga e poi improvvisamente ama opere e artisti; una visione pura e idilliaca della cultura – fonte di concetti a cui attingere per far comprendere meglio se stessi – ed è anche una lettura del nostro tempo sia dalla prospettiva umana che politica.

Trasponendo le parole di Jack London sul grande schermo, Pietro Marcello sceglie anche di trapiantare il protagonista dalla California a Napoli, pur trasfigurando la città al punto da renderla geograficamente onnipresente in ogni angolo affacciato sul mare dell’intera Penisola. Lo fa, forse, spinto dall’idea che in tutti noi alberghi lo stesso sfavillante scintillio che anima Martin Eden all’inizio della pellicola: la voglia di fare di più, di diventare “come loro”, di perseguire un obiettivo nobile e criticato, trovando nella cultura il baluardo al quale appigliarsi per emergere come uomo e come cittadino. Eppure, chissà quanti di noi si saranno sentiti chiamati in causa dinnanzi alle domande di parenti e amici di Martin che, guardando dall’alto in basso lui e la sua macchina da scrivere, non fanno che chiedere come riesca a vivere.

La critica di Marcello però sconfina l’arcinota convinzione di alcuni politici nostrani, secondo i quali “con la cultura non si mangia” per approdare all’esplosione della popolarità incontrollata, perversa, sterile. Una popolarità che, pur figlia di una qualche forma d’arte e apprendimento intellettuale, non si dimostra per nulla razionale, ma fortuita e sconsiderata, a tratti fastidiosa e vuota come la carcassa di una cozza divorata dalla fame.

Pietro Marcello: la sperimentazione al potere

Mantenendo fede al suo stile art house, Pietro Marcello crea (proprio come nei precedenti  Bella e perduta o nei documentari Il passaggio della linea e La bocca del lupo) flebili ma resistenti linee di comunicazione tra sogno e realtà, tra conoscenza accademica e apprendimento da autodidatta, tra il grande e noto cinema e quell’arte indipendente di interpretare il mondo attraverso una telecamera. La sua formazione pittorica (ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli) viene a galla fin dalle prime immagini che si susseguono sulla grande tela illuminata della sala cinematografica, riaffiorando come da un lungo torpore, a tratti sgualcite ma proprio per questo vive.

Il lavoro di regia frammenta le diapositive come briciole di pane: sparse lungo la tavola imbandita di suoni e voci e parole disperate, i personaggi di Martin Eden si espandono nello spazio loro concesso fino ad amalgamarsi col territorio in cui vivono, inzuppandosi di parole dialettali e problematiche irrisolvibili. I loro corpi sono ritratti a matita immersi in vaporose vasche di colori rarefatti, a tratti vividi, a tratti così sgualciti. Supportato dalla fotografia di Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo, Pietro Marcello regala al pubblico un’opera astratta in cui tutte le anime di Napoli convergono con una potenza ineluttabile. La città non si scompone: si lascia sviscerare tra i putridi angoli di miseria e quelli sfarzosi della nobiltà.

È un fiume in piena Pietro Marcello, un fiume che travolge tutti col passato, riproponendolo con occhi nuovi, dettagli carichi di meraviglia a cui ci viene concessa la visione grazie a preziose immagini di repertorio: un passato nebuloso che fa da cornice a un personaggio tormentato nelle cui peculiarità vivono le personalità sia dello stesso London (che lo ha ideato) che del regista.

Luca Marinelli: l’anima di tutti i Martin Eden del mondo

A farsi portavoce di questo gargantuesco carico emotivo è l’attore Luca Marinelli, che con la sua interpretazione ha vinto la Coppa Volpi allo scorso Festival di Venezia.
Lanciato da Saverio Costanzo nel 2010 con La solitudine dei numeri primi, Marinelli ha avuto la sua consacrazione interpretando uno dei “ragazzi di vita” di Caligari in Non essere cattivo e poi lo Zingaro in Lo chiamavano Jeeg Robot.
La sua espressività, il modo vorace di calarsi nei personaggi che interpreta, è una certezza che viene confermata anche in questa pellicola, in cui l’attore compie l’impresa di appiccicarsi addosso un personaggio oscuro, difficile, ostinato. L’attore romano riesce a trasfigurarsi attraverso la criptolalia del dialetto partenopeo, a mozzicare le parole per restituirle allo spettatore nella loro fugacità colloquiale e arcaica. L’ombra di Martin Eden aleggia nell’anima di Marinelli come un’ombra, guidandolo in ogni passo sul set e inducendolo a perdersi e ritrovarsi, ad abbassarsi nelle fattezze di un rozzo marinaio latin lover e poi elevarsi come autore di successo.
Luca Marinelli arricchisce così la pellicola di Marcello sprigionando ritmicamente quiete e tempesta e talvolta lasciando che, nello sguardo affamato di conoscenza e riscatto, si intraveda lo sguardo di ognuno di noi.

Completa la costruzione del racconto la soundtrack di Marco Messina e Sacha Ricci, perfettamente aderente allo stato d’animo del protagonista; impreziosita nei momenti salienti da canzoni napoletane e non che, da Piccere’ di Daniele Pace a Rain di George Winston o Mentor di Kerry Strayer Quartet, intessono di nostalgia e allegria l’intero lungometraggio.

Avviandoci alla conclusione, potremmo dire che Pietro Marcello, col suo Martin Eden, compie un doppio salto nel mare della nostra cultura cinematografica, dando voce al presente attraverso il passato e dimostrando che la sperimentazione è sempre possibile e che il cinema italiano custodisce misteri ancora da scandagliare e apprezzare.
L’autore campano accende una speranza nella collettività e nella rappresentazione poetica, disturbata e verace della sua opera, sembra voler suggerire e augurare che il mondo non è dei professionisti, non dei figli d’arte. Il mondo è di chi ha fame di esistere.

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