Il cinema di Jim Jarmusch è una casa al mare, ma nel Greenwich Village

Occhiali scuri, notte fonda, inseguito dall’Ugly Spirit — quel demone con la voce di Kerouac e l’odore di tabacco freddo. Ogni scena è un ematoma. Ogni inquadratura un colpo di tosse. Ogni bicchiere vuoto un finale abortito. Qui la redenzione è rumore. Carne. Ruggine. Una bellezza che si graffia da sola per non essere venduta in saldo.

Dice Jim Jarmusch su se stesso: “Sono un autore veramente indipendente, non faccio nessun film su cui non ho il controllo artistico totale; le scelte spettano a me, perché voglio sia sempre l’ennesima opportunità meravigliosa. Sono scelte che cercano collaborazione; quella più ingegnosa riguardo un’urgenza da filmmaker distante dalle grandi cinematografie. Voglio sia tattile. I film sono collaborazione. C’è intelletto, c’è cultura, c’è riflesso tra l’uno e l’altra. La costruzione di un film potrebbe esemplificare una vita intera per quante cose contiene e prevede.”

Jim Jarmusch: la solitudine non arriva, si infiltra. È una siringa opaca piantata nel fianco di un pomeriggio che non promette niente. Ti cammina dentro piano, mentre fuori il mondo si scolla dai palazzi come intonaco umido, e le strade si riempiono solo di eco. È tossica e volgare come una diva dimenticata, un veleno che ti brucia lo stomaco peggio di un bourbon finto alle quattro del mattino, peggio di un solo di Neil Young fuori fase, distorto, acceso come un bidone dell’immondizia in fiamme a Detroit. Qui non si salva nessuno. Nessun perdono. Solo la consapevolezza sporca che tutto si sta sbriciolando — come in uno di quei monologhi di Beckett dove aspetti che qualcosa succeda. Ma non succede. Mai. Cinema del post-punk? Un cuore infetto che batte fuori tempo, un assalto acustico che ti pesta la faccia come una canzone dei Suicide incollata su un VHS smagnetizzato. Il suono non accompagna. Ti taglia. Ti lascia addosso l’odore dell’eroina e il gelo invernale di una Manhattan che ha perso le mappe.

Jim Jarmusch, il caos di Cassavetes, Beckett con la bronchite e bunker di malinconia

Jim Jarmusch;
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Jarmusch è una casa al mare, ma a tre isolati dal Village, finestre sfondate su un oceano di cemento e neon che sputano luce intermittente. Dentro si respira muffa, take-away andato a male e sudore incrostato. È un odore salmastro che ti si incolla come l’umidità d’estate su un abito che finisce sulle cosce appena sopra il ginocchio. Ogni parete un arto morto. Ogni scricchiolio un ricordo che tossisce. La casa non è rifugio, è testimonianza. Resta lì, silenziosa, come una vecchia inquadratura sfuocata che ti osserva mentre ti dimentichi chi sei. È Stranger Than Paradise, ma senza nessun paradiso. Dead Man, ma il morto sei tu e cammini ancora. Down by Law, ma la legge è evaporata nel fumo delle ciminiere. Cassavetes avrebbe riso, con quella sua faccia stanca, davanti a questo circo umano che si spella via come pellicole lasciate al sole. Una verità sporca.

Il cinema di Jim Jarmusch è un bunker di malinconia. Di quella che non piange, ma ti guarda dritto in faccia mentre ti affoghi nel rumore dei Television, che salgono e scendono le scale con la rabbia di un basso che non sa smettere. È il punto in cui Ozu incontra il clangore del Bronx. È Beckett con la bronchite e Neil Young con le dita rotte. Un luogo dove la tristezza è fisica, ti prende a pugni e ti lascia lì. In una città che non dorme. Rigurgita versi. Ginsberg che sputa poesia marcia nei vicoli, tra spacciatori e gatti randagi. Il cinema è un’arena sporca, ogni fotogramma è sangue secco su una polaroid dimenticata. La metropoli? Una provincia collassata, un vecchio ubriaco che tenta di ricordarsi perché era uscito. Ogni angolo è un set senza rete. Qui l’eroina non buca: scivola, striscia. La musica è un codice Morse lanciato in aria — battito cardiaco per sopravvivere. Nessuno cerca Dio, nessuno cerca scuse. Solo un accendino, l’ultimo, per dare fuoco all’ultimo mozzicone di sopravvivenza.

Cinema da lividi

Jim Jarmusch;
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In questo cinema la malinconia è regina, sì, ma con una corona fatta di spine arrugginite. Ti stringe e ti graffia nello stesso respiro. Ozu la osserva da lontano; sereno, come se tutto questo fosse normale. E forse lo è. Un amore tossico che non ti lascia lividi ma svuotato. Ian Curtis ci guarda dal fondo di un pozzo. Mark E. Smith vomita manifesti in un bagno pubblico. Jarmusch? Sta scavando con un cucchiaino tra le rovine, cercando il suono giusto per raccontare tutto questo. Il corpo è una carcassa con i denti serrati, abbandonata sul sedile posteriore di una macchina che non parte. Non è morte. È rimanere. È dire “sono ancora qui” anche quando tutto grida “sparisci”.

La città mastica e sputa. La provincia è solo una versione più sincera del disastro. Qui si svanisce senza effetti speciali. Nessun finale. Nessun applauso. Solo fango, fiato corto e silenzio.

E quando non ti resta più nemmeno la voglia di provarci, allora sì, cammini. Occhiali scuri, notte fonda, inseguito dall’Ugly Spirit — quel demone con la voce di Kerouac e l’odore di tabacco freddo. Ogni scena è un ematoma. Ogni inquadratura un colpo di tosse. Ogni bicchiere vuoto un finale abortito. Qui la redenzione è rumore. Carne. Ruggine. Una bellezza che si graffia da sola per non essere venduta in saldo.

E cos’è, allora, questo cinema, cos’è la solitudine di Jim Jarmusch?

Jim Jarmusch;
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Permanent Vacation, Jim Jarmusch (1980)

Un’epifania da overdose. Un urlo che si spezza in gola. Forse è tutto ciò che abbiamo cercato di non essere. Ma siamo. Pieni. Crudi. Frangibili. Viviamo nell’estetica della sparizione. Bollicine in una vasca radioattiva. Gas mentale che esplode in faccia. Senza filtro. Senza codice. Solo la nudità ruvida di un cinema figlio di nessuno, bastardo e necessario.
Il pensiero? Un incesto consenziente. Una coppia aperta che si lacera la pelle su moquette elettriche sfilacciate. Un cinema da camera dove l’intimità non chiede permesso, ma si fa sputare addosso da un pubblico cieco. Etica svuotata. Morale col mascara colato. Sangue, freddo.
Jim Jarmusch è ancora vivo!