Cinema Asiatico: 15 registi da conoscere per iniziare ad amarlo

La vittoria di Hirokazu Kore-eda a Cannes 2018 è l'ennesima affermazione dell'importanza mondiale del cinema orientale: da Kurosawa a Lav Diaz, da Zhang Yimou a Kim Ki-duk, ecco i 15 registi più influenti – tra passato, presente e futuro – del continente asiatico.

I palmares recenti dei più importanti festival mondiali parlano chiaro: Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (Apichatpong Weerasethakul, Thailandia), Palma d’Oro 2010; Fuochi d’artificio in pieno giorno (Diao Yinan, Cina), Orso d’Oro 2014; Right Now, Wrong Then (Hong Sang-soo, Corea del Sud), Pardo d’Oro 2015; The Woman Who Left (Lav Diaz, Filippine), Leone d’Oro 2016; I Am Not Madame Bovary (Feng Xiaogang, Cina), Conchiglia d’Oro 2016. È diventato pressoché impossibile non premiare e non celebrare la Settima Arte orientale contemporanea. Ma quali sono gli autori essenziali, quelli che hanno fatto e stanno facendo la storia (cinematografica) del continente? Ne abbiamo selezionati 15, per imparare a conoscere le coordinate di un modo di fare cinema che sembra sempre lontano nello spazio e nel tempo, e che invece non è mai stato così vicino.

15 registi per imparare a conoscere il cinema orientale

Akira Kurosawa e Rashomon (Giappone, 1950)

Cinema asiatico Cinematographe.itSui libri di cinema si inizia a parlare di Asia a partire dal 1950. Autori come Akira Kurosawa (Rashomon, 1950), Yasujiro Ozu (Viaggio a Tokyo, 1953) e Kenji Mizoguchi (I racconti della luna pallida d’agosto, 1953) si affacciano per la prima volta sugli schermi del mondo occidentale, diventando punti di riferimento.
Il modello produttivo è quello hollywoodiano, ma i rapporti di forza (soprattutto estetici) cambiano grazie a Rashomon, Leone d’Oro a Venezia nel 1951 e Oscar al Miglior Film Straniero nel 1952. L’umanesimo cinematografico nipponico passa attraverso l’espediente dei diversi punti di vista, che rendono impossibile una soluzione univoca dell’intreccio.

Allegorico e simbolico (con chiari riferimenti alla bomba atomica e alla Seconda Guerra Mondiale), Rashomon è oggi ritenuto uno dei più grandi film mai realizzati.
A differenza di Ozu e Mizoguchi, la carriera di Kurosawa proseguirà fino al 1993 rastrellando premi un po’ ovunque, tra cui spicca la Palma d’Oro a Cannes nel 1980 per Kagemusha – L’ombra del guerriero.

Nagisa Oshima ed Ecco l’impero dei sensi (Giappone, 1976)

Cinema asiatico Cinematographe.itGrande scandalo al Festival di Cannes 1976 (vinto da Taxi Driver di Scorsese, per la cronaca): nella sezione collaterale Quinzaine des Réalisateurs viene presentato Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Oshima, storia di una giovane cameriera e del morboso rapporto che instaura con il proprietario della locanda presso cui presta servizio. Il successo è tale da costringere gli organizzatori a passare dalle cinque proiezioni previste a dodici.

È il film che porta al successo Oshima, ma ne costituisce anche un po’ la maledizione, il titolo che lo ingabbia nella definizione di regista erotico e pruriginoso. Oshima – oltre 50 film all’attivo, fino al 1999 – riuscirà ad affrancarsi da quella nomea solo grazie a Furyo (1983), in cui l’analisi dell’istinto sessuale si combina con quella del potere.

John Woo e A Better Tomorrow (Hong Kong, 1986)

Cinema asiatico Cinematographe.itCantonese di nascita ma cresciuto a Hong Kong, John Woo è stato ed è tutt’ora il regista orientale che forse ha meglio gestito (assieme ad Ang Lee) il rapporto con gli Studios americani. Il suo talento esplode con A Better Tomorrow, che riassume il suo modo di fare e intendere il cinema: un ardito mix di rispetto dei valori classici (amicizia, onore) e ritmi vertiginosi tipici delle arti marziali.

Negli Stati Uniti gira Nome in codice: Broken Arrow (1996) con John Travolta, Face/Off (1997) con Nicolas Cage e Mission: Impossible II (2000) con Tom Cruise e, prima del ritorno in patria, scrive anche la trama del videogame Stranglehold (2007) per la Midway Games.
In cerca di rilancio riparte da Hong Kong e dai wuxia pian (cappa e spada) epico-storici, con La battaglia dei tre regni (2008) e La congiura della pietra nera (2010).

Shinya Tsukamoto e Tetsuo (Giappone, 1989)

Cinema asiatico Cinematographe.itRegista di culto internazionale, Tsukamoto deve gran parte della sua fama all’ossessione/passione che ha in pratica attraversato tutta la sua carriera: quella dell’uomo-macchina, della lotta dell’individuo per conservare la sua organicità in un mondo inorganico. Underground, cyberpunk e surrealista, il suo esordio nel lungometraggio Tetsuo è influenzato dalla poetica anni ’80 del canadese David Cronenberg: ambientazione urbana, violenza fisica che spezza l’ordine sociale, messa in scena ipercinetica e futurista. L’alienazione e la perdita di identità portano alla trasformazione dell’essere umano, in rapporto conflittuale con la tecnologia.

In Italia Tsukamoto gode di particolare considerazione grazie ad Enrico Ghezzi, che ha spesso mandato in onda i suoi film in orario notturno su Fuori Orario (facendolo così conoscere ad una più ampia fetta di pubblico, e al contempo esaudendo i desideri dei suoi fan più accaniti).

Zhang Yimou e Lanterne rosse (Cina, 1991)

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Sono due i film che, dopo un lungo periodo di oblio, riportano l’attenzione festivaliera all’Asia e in particolar modo alla Cina: Lanterne rosse di Zhang Yimou, Leone d’Argento nel 1991, e Addio mia concubina di Chen Kaige, Palma d’Oro nel 1993.

Zhang Yimou è il regista-simbolo della Cina del nuovo millennio, nonostante sia stato a lungo ostracizzato in patria. Le ragioni della diffidenza nei suoi confronti sono da imputare anche a motivi extra-cinematografici: pare infatti che Zhang abbia infranto la cosiddetta legge cinese “del figlio unico”. In conseguenza di ciò, la sua filmografia è composta da un lato da necessari film “di regime”, che celebrano la grandezza della Repubblica Popolare Cinese (La strada verso casa, 1999; Mille miglia… lontano, 2005), e dall’altro da opere più libere, che mettono in mostra le reale poetica del cineasta orientale, percorsa da un attento realismo e dalla denuncia della condizione femminile (La storia di Qiu Ju, 1992; La locanda della felicità, 2001).
Pur non essendo apertamente il suo genere di riferimento, negli ultimi anni Zhang si è messo alla prova anche con il wuxia, con Hero (2002) e La foresta dei pugnali volanti (2004).

Takeshi Kitano e Hana-bi – Fiori di fuoco (Giappone, 1997)

Cinema asiatico Cinematographe.itSi farebbe prima a dire cosa Takeshi Kitano non ha fatto, invece del contrario. Comico e cabarettista per la tv giapponese, autore televisivo, conduttore radiofonico, pittore, cantante, autore di videogame. E naturalmente regista, a partire dal 1989 (Violent Cop). Serioso e al contempo molto auto-ironico, Kitano satireggia la yakuza in Sonatine (1993), sbeffeggia il consumismo nipponico in Getting Any? (1994) e vede consacrato il proprio anomalo talento con Hana-bi, che nel 1997 porta a casa il Leone d’Oro. Nella tensione fra l’estrema violenza e l’estrema delicatezza della pellicola c’è tutta la cifra formale di Kitano, presente anche nei successivi Brother (2000) e Zatoichi (2003).

Esaurita la propria vena creativa, Kitano ha celebrato ed esorcizzato la propria crisi con la trilogia formata da Takeshis’ (2005), Glory to the Filmmaker! (2007) e Achille e la tartaruga (2008).
Nel periodo delle ultime elezioni americane è tornato alla ribalta per la sua personalissima imitazione di Donald Trump (con tanto di parruccone biondo platino), sempre per la tv nipponica.

Wong Kar-wai e In the Mood for Love (Hong Kong, 2000)

Cinema asiatico Cinematographe.itUna eccezione, che conferma la regola (del cinema cinese contemporaneo). Wong Kar-wai, cinese di nascita ma attivo a Hong Kong, sembra arrivare dal nulla e sembra girare in un modo in cui nessuno ha mai girato prima. In the Mood for Love, passato in concorso a Cannes, è un oggetto alieno che viene studiato dalla critica come il raro reperto di un cinema passato che sfida gli stilemi del futuro. Nella messinscena di Wong c’è il noir esistenziale, l’ambientazione astratta, la narrazione enigmatica. Il tempo e lo spazio si fermano fin oltre la vertigine, nella storia di una passione amorosa non consumata per colpa di rigide convenzioni sociali.

La struggente malinconia degli amori impossibili verrà ripresa successivamente sia in 2046 (2004) – misterioso sequel di In the Mood for Love – che in Un bacio romantico – My Blueberry Nights (2007), esordio americano ben accolto dalla critica ma non del tutto compreso dal pubblico, sia statunitense (in difficoltà con l’anomalo incedere della narrazione di Wong) che asiatico (interdetto dalla volontà di Wong di girare oltre i confini nazionali).

Ang Lee e La tigre e il dragone (Taiwan/Cina, 2000)

Cinema asiatico Cinematographe.itAssieme a John Woo, il regista più a suo agio con le collaborazioni americane. Ad eccezione di Hulk (2003) ovviamente, tonfo irrecuperabile immediatamente cancellato dagli Studios con un colpo di spugna.

La tigre e il dragone spezza il ritmo dei lavori americani di Ang Lee, riportandolo in Cina e Taiwan. Prima e dopo questo capolavoro wuxia ci sono Ragione e sentimento (1995, Orso d’Oro), I segreti di Brokeback Mountain (2005, Leone d’Oro), Vita di Pi (2012, quattro Oscar): pellicole che dimostrano la non comune duttilità dell’autore taiwanese, capace di scendere a patti con la letteratura inglese e con le tematiche LGBT, con pezzi indimenticabili della storia Usa passata (Motel Woodstock, 2009) e presente (Billy Lynn – Un giorno da eroe, 2016). E quando Lee decide di tornare a girare in patria non passa comunque inosservato, basti pensare appunto a La tigre e il dragone (Oscar per il Miglior Film Straniero nel 2001) e a Lussuria – Seduzione e tradimento (Leone d’Oro nel 2007).

Hayao Miyazaki e La città incantata (Giappone, 2001)

Cinema asiatico Cinematographe.itMai come con Hayao Miyazaki l’animazione “per adulti” ha conosciuto un così ampio e universale apprezzamento. L’enorme successo di La città incantata (Orso d’Oro nel 2002, Oscar per il Miglior Film d’Animazione nel 2003) ha permesso non solo di riscoprire la sua carriera precedente (Il mio vicino Totoro, 1988; Porco Rosso, 1992; Princess Mononoke, 1997), ma anche di rivalutare altri autori rimasti fino a quel momento nell’ombra: su tutti Satoshi Kon (Paprika – Sognando un sogno, 2006) e Isao Takahata (Una tomba per le lucciole, 1988), quest’ultimo sodale di Miyazaki allo Studio Ghibli.

Miyazaki, ormai una leggenda vivente, annuncia il ritiro dalle scene ormai da diversi lustri, salvo poi tornare sui suoi passi quando si rende amaramante conto che nessuno è pronto a raccogliere la sua eredità. Attendiamo dunque fiduciosi l’annuncio di un suo nuovo lungometraggio.

Park Chan-wook e Old Boy (Corea del Sud, 2003)

Cinema asiatico Cinematographe.itNel 2004, al Festival di Cannes, un fulmine a ciel sereno colpisce il pubblico e la giuria presieduta da un entusiasta Quentin Tarantino: è Old Boy, seconda parte della cosiddetta Trilogia della vendetta formata anche da Mr. Vendetta (2002) e da Lady Vendetta (2004). Il film, vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria, è il crudo resoconto della punizione inflitta ad un uomo apparentemente innocente, che viene rinchiuso per 15 anni da dei misteriosi carcerieri.

Un’opera irripetibile (impreziosita da un piano sequenza mozzafiato che ha fatto scuola), come dimostrano da un lato l’anonimo e superfluo remake realizzato nel 2013 da Spike Lee e dall’altro il medesimo prosieguo della carriera di Park, che non raggiungerà più la qualità di storia e messinscena di Old Boy né in patria (Thirst, 2009) né all’estero (lo sbilenco Stoker, 2013, con Nicole Kidman e Mia Wasikowska).

Kim Ki-duk e Ferro 3 – La casa vuota (Corea del Sud, 2004)

Cinema asiatico Cinematographe.itFragile ma mai doma, capace di rendersi ampiamente riconoscibile e al contempo di stravolgere i propri connotati verso inattesi sperimentalismi, la filmografia di Kim Ki-duk è attraversata dalla denuncia del capitalismo degradante e disumano che emargina e genera mostri. L’anno di grazia per Kim è il 2004: nel giro di 7 mesi arrivano infatti l’Orso d’Argento per La samaritana e il Leone d’Argento per Ferro 3.

Sullo schermo un saggio di cinema essenziale e poetico, che tocca la metafisica aprendo anche a momenti di inusitata violenza: è il pattern di un regista che vive il mezzo cinema come una seduta di psicologia, come una auto-analisi necessaria per l’umana sopravvivenza. Dopo una pesante crisi durata tre anni (e sfociata nel documentario Arirang, 2011), Kim Ki-duk torna alla ribalta con Pietà (Leone d’Oro nel 2012) e con delle opere decisamente più disilluse e disincantate rispetto alla prima parte della sua carriera.

Jia Zhang-ke e Still Life (Cina, 2006)

Cinema asiatico Cinematographe.itÈ merito di Marco Müller – direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia dal 2004 al 2011 – se abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare Jia Zhang-ke e almeno una decina di autori asiatici contemporanei (fra cui Lav Diaz). Nel 2006 Still Life è il “film sorpresa” del concorso veneziano, e la giuria presieduta da Catherine Deneuve decide inaspettatamente di premiarlo con il Leone d’Oro.

Still Life racconta la “natura morta” della quotidianità operaia cinese, con spirito iper-realista e apertamente critico. Non a caso Jia Zhang-ke è inviso alla censura del proprio Paese, al pari ad esempio di Wang Bing (la cui poetica è sempre votata alla denuncia delle storture presenti in Cina, ma con uno stile più documentaristico e indirizzato allo choc visivo).
Rotti gli argini grazie a Still Life, i lavori di Jia Zhang-ke continuano ad essere contesi dai festival di mezzo mondo: al centro della sua disamina, il modo devastante in cui modernizzazione e crescita economica stanno distruggendo l’identità della Cina.

Apichatpong Weerasethakul e Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (Thailandia, 2010)

Cinema asiatico Cinematographe.itAutore di punta del cinema thailandese, Apichatpong Weerasethakul arriva alla piena riconoscibilità internazionale con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, una delle Palme d’Oro più controverse e contestate degli ultimi anni.
Un’opera lontana dai ritmi narrativi frenetici e «misteriosa, allucinatoria, di una lentezza cerimoniale» (come dirà Jean-Luc Douin su Le Monde). In effetti è quasi impossibile parlare di Lo zio Boonmee, quasi impossibile ricondurlo a delle coordinate univoche e condivise: è un film ipnotico e soprannaturale, che attinge al campo metaforico e alla tradizione thailandese. E anche alla Storia thailandese, attraverso squarci dei conflitti che hanno stravolto il Paese.

Apichatpong Weerasethakul è alfiere di una cinematografia che non esiste, mosca bianca all’interno di un’industria che riesce ad esprimersi solo tramite le arti marziali (Ong-Bak, 2003; Chocolate, 2008) e i thriller/horror commerciali di facile vendita all’estero (13 Beloved, 2006).

Lav Diaz e The Woman Who Left (Filippine, 2016)

Cinema asiatico Cinematographe.itParole d’ordine: “trasfigurazione” e “realtà”. Il nuovo cinema filippino trae linfa dalla denuncia della povertà e degli endemici problemi che affliggono la nazione. Pur con i medesimi intenti, i due registi principali delle Filippine contemporanee affrontano la tematica con stili e contenuti diversi: se Brillante Mendoza (Kinatay – Massacro, Premio per la Miglior Regia a Cannes 2009) punta ad una visione iper-realistica e quasi voyeuristica, Lav Diaz affronta il cinema come una vera e propria esperienza totalizzante, con opere capaci di sfiorare le 12 ore di durata, utilizzo del bianco e nero e del piano sequenza semi-immobile.

Dire che il cinema di Lav Diaz è ostico è dire poco; ma è indubbio che la sua sia una proposta totalmente innovativa nel panorama cinematografico asiatico e mondiale, che al contempo affascina e respinge.

Hirokazu Kore-eda e Shoplifters (Giappone, 2018)

Cinema asiatico Cinematographe.itEra solo questione di tempo: Hirokazu Kore-eda è da qualche anno a questa parte diventato un nome onnipresente conteso dai maggiori festival europei. Nonostante si sia cimentato anche con il jidai-jeki (il caratteritico film in costume nipponico) e con il thriller giudiziario tout court, le opere migliori di Hirokazu sono quelle intrise di minimalismo e intimismo.

Memoria, elaborazione del lutto, fatti di cronaca, drammi familiari: il cuore pulsante della sua poetica è l’indagine di piccole realtà quotidiane, filtrate attraverso dettagli e inquadrature che creano un rapporto privilegiato con lo spettatore, che inevitabilmente si immedesima nei protagonisti. Non fa eccezione Shoplifters, Palma d’Oro a Cannes 2018, che con semplicità affronta esemplarmente una delicata questione morale.