Esterno Notte: la storia vera di Aldo Moro, morto nella “prigione del popolo”

Chi era Aldo Moro? Da Esterno Notte di Marco Bellocchio alla storia vera del presidente della Dc

Buongiorno notte nel 2003 e adesso, nel 2022, Esterno Notte. Così Marco Bellocchio torna a parlare di Aldo Moro: uno dei casi più sconvolgenti nella storia del nostro Paese. Il presidente della Democrazia Cristiana avrebbe voluto cambiare le cose, avvicinare destra e sinistra al governo, in un’Italia e in un mondo diviso in due in cui la ribellione e il malcontento si tagliano a fette, in cui la fede cattolica scruta con rabbia il comunismo e l’America si intromette negli affari interni. È il Bel Paese del 1978 e da quel maledetto 16 marzo niente sarebbe stato più come prima, perché l’attesa si fa angosciante, si interseca con paure, dubbi, passi falsi e dolore. La vita che trapassa Aldo Moro si fossilizza nella sua morte finendo per essere indelebile ed eternamente martoriata da una mitragliata di misteri irrisolti ai quali di tanto in tanto si aggiunge una postilla di più.

Ma chi era davvero Aldo Moro? Come sono andate le cose? Marco Bellocchio si diletta a edulcorare i contorni di questa vicenda con macchie sognanti e possibilità illusorie, dando quasi man forte al complottismo, alla patina invisibile di ciò che invece realmente è, ma non ci viene detto. Il regista emiliano gioca con una palla fatta di “forse” e “perché”, avendo sempre cura di farci trovare il bandolo della matassa, la via maestra che ci conduca – se non direttamente alla verità – a cercarla da noi.

Il suo Esterno Notte si avvale di un cast tecnico e artistico strepitoso e ha come obiettivo quello di esaminare il caso Moro da più punti di vista, che l’autore scandisce durante la visione al fine di darci un affresco abbastanza completo delle personalità pubbliche e private che si avvicendarono sulla scena. Vediamo i “buoni” e i “cattivi”, gli amici veri e falsi, i politici e i familiari, ognuno con le proprie idee e con i propri interrogativi, tutti più o meno impegnati, oltre che a salvare la vita del presidente, a salvare la faccia dello Stato italiano.

Chi era Aldo Moro? La storia del presidente Dc raccontata in Esterno Notte di Marco Bellocchio

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Il regista affida l’interpretazione di Aldo Moro a Fabrizio Gifuni, che in questi panni di martire e politico è davvero un gigante. In lui si coagula l’espressività, la missione, la paura di un uomo condannato a morte da un sistema folle e ingiusto, condannato a morte da un’idea.
Bellocchio si premura innanzitutto di dare un volto credibile a Moro, di far trasparire, oltre alla sua dote professionale, il suo valore umano. L’Aldo Moro di Gifuni è un uomo che non riesce a dormire, che si attarda a leggere il giornale, mangia da solo per non disturbare; è maniaco della pulizia, pensa spesso al dopo, come se avesse in qualche modo predetto la sua dipartita. Sa scegliere con cura le parole, persuadere l’animo umano senza muovere un dito, rispettare le diversità, venire incontro ai giovani.

Aldo Moro, che i nostri occhi così “piccoli e mortali” (per citare la serie) sono condannati a ricordare con la scritta delle Brigate Rosse alle spalle e una copia del quotidiano La Repubblica in mano, nacque a Maglie (in provincia di Lecce) il 23 settembre del 1916. Conseguì la maturità classica presso il Liceo Archita di Taranto per poi laurearsi in Giurisprudenza all’Università di Bari con una tesi sulla capacità giuridica penale e rimanendo presso la stessa sede in qualità di docente, dal 1958 (chiederà poi il trasferimento presso l’Università La Sapienza di Roma). Traspare anche questo suo legame con l’insegnamento, in Esterno Notte, insieme a quel delicato interloquire con gli alunni, alla fede in una conoscenza che non snobba ma eleva (la serie non lo dice, ma fu lui a proporre l’inserimento di educazione civica nei piani di studio scolastici).

Il compromesso storico: il dialogo tra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer per la solidarietà nazionale

In politica il suo nome si lega indissolubilmente a quello della Democrazia Cristiana, di cui fu co-fondatore nei primi anni ’40 e poi vicepresidente (1946), sottosegretario agli esteri (1948) e, tra il 1963 e il 1976, fu eletto per cinque volte Presidente del Consiglio dei Ministri.
In Esterno Notte la sua ars oratoria si palesa in un discorso famoso in cui si vanta con la figlia di non aver mai citato la parola “comunismo” per perorare la sua causa: creare un governo col sostegno del PCI di Enrico Berlinguer. Parliamo del famoso “compromesso storico” e della grande coalizione che avrebbe dovuto portare i comunisti al governo, ma che di fatto non si realizzò mai.
Quel giovedì 16 marzo 1978, infatti, non coincise solo col rapimento di Aldo Moro, ma anche col giorno in cui era previsto il voto di fiducia per la nascita del quarto governo presieduto da Giulio Andreotti. Un governo che avrebbe dovuto risanare e rinnovare la società e lo Stato italiano, unendo i consensi delle diverse fazioni che all’epoca si sfidavano sul campo politico, ovvero le forze popolari d’ispirazione socialista e comunista e quelle conservatici appartenenti alle correnti cattoliche e democratiche. Un’idea, quella del compromesso, elaborata e sostenuta dal segretario del PCI Berlinguer a partire dall’esperienza cilena di Salvador Allende e che trovò in Aldo Moro il principale interlocutore e mediatore.

L’attentato di via Fani e il rapimento di Aldo Moro: furono davvero le Brigate Rosse?

Ma Moro non arrivò mai a quel fatidico appuntamento fissato per le 10.00 del mattino, poiché alle 9.00 si consumò il suo rapimento in via Mario Fani, una strada tranquilla della Capitale presso al quale il presidente era solito passare tutte le mattine per recarsi in Parlamento.
Cosa accadde davvero in quei pochi minuti? Esterno Notte ricostruisce la scena sia dal punto di vista di Aldo Moro e della sua scorta sia da quello delle Brigate Rosse, senza lasciare apparentemente strascichi dubbiosi. La miniserie ci mostra ciò che storicamente è noto ai più: l’attentato architettato da quattro membri delle Brigate Rosse (Valerio Morucci “Matteo”, Raffaele Fiore “Marcello”, Prospero Gallinari “Giuseppe” e Franco Bonisoli “Luigi”) i quali, travestendosi da piloti dell’Alitalia, aprirono il fuoco sull’auto i cui viaggiava Moro e sulla sua scorta, ferendo a morte tutti tranne il presidente della Democrazia Cristiana, che fu rapito e condotto in un nascondiglio segreto, presso un’abitazione sita nella Capitale.

Prima di parlare di cosa avvenne nei cinquantacinque giorni di prigionia è bene fermarsi e farsi qualche domanda sui veri artefici del rapimento in questione che, come è noto ai più, andò a minare la costituzione di un nuovo assetto socio-politico.
La miniserie di Marco Bellocchio ci fa intuire benissimo la situazione vigente nel Bel Paese, afflitto quotidianamente da gambizzazioni, uccisioni e manifestazioni violente, così come ci porta chiaramente l’attenzione su uno dei gruppi terroristici più famosi di quel periodo, le Brigate Rosse: un’organizzazione rivoluzionaria di sinistra nata nel 1970 che in quegli anni diede davvero l’impressione di essere in grado di sovvertire l’ordine democratico della Repubblica. Furono loro a rivendicare l’attentato di via Fani, quei comunisti (da cui Berlinguer prese giustamente le distanze) che, a detta di molti, furono effettivamente manovrati dai poteri forti.

Ciò che infatti non fila perfettamente, nella ricostruzione dell’agguato fatto ad Aldo Moro e alla sua scorta, è la precisione con la quale questi giovani e “sprovveduti” terroristi abbiano sferrato i colpi, non dando modo e tempo a nessuno di difendersi e, soprattutto, lasciando indenne il presidente della DC, sul cui cadavere fu poi rinvenuta – in seguito all’autopsia – solo una ferita alla natica.
A questo dettaglio, per nulla scontato, si sommano le dichiarazioni di chi dice di aver udito qualcuno dare ordini in lingua straniera e di aver visto due uomini fuggire a bordo di una moto Honda, nonché i dettagli in merito all’arma usata per gli omicidi. In una prima analisi si disse che i quarantanove colpi erano stati esplosi tutti da una stessa pistola, salvo poi aumentare il numero a due esemplari uguali della medesima arma. Tra le ipotesi più gettonate rientra quella secondo la quale a compiere il tutto siano stati i servizi segreti americani (forse col contributo della ‘ndrangheta). Tesi avallata dal transito in via Fani, nel giorno dell’attentato, di un agente dei servizi segreti, che successivamente dichiarò di trovarsi da quelle parti per un pranzo tra amici.
A condire il tutto anche un crollo, sempre nella mattina del 16 marzo, delle linee telefoniche nella zona, dovuta probabilmente all’eccessivo numero di chiamate legate all’accaduto.

La notizia del rapimento di Aldo Moro arrivò subito su tutti i notiziari e a tal proposito Marco Bellocchio ci mostra, tramite lo schermo di una vecchia TV a tubo catodico, un giovane Bruno Vespa dare la notizia che da lì a poco avrebbe fatto piombare la politica nel caos, stravolgendo un Paese intero e portando le persone a manifestare spontaneamente.
Quel giovedì 16 marzo del 1978 Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, che scortavano Moro, persero la vita, mentre il presidente della Democrazia Cristiana fu condotto presso un nascondiglio segreto, dove sarebbe stato tenuto in ostaggio per cinquantacinque lunghissimi giorni.

Il comunicato n. 1 delle Brigate Rosse: “Aldo Moro è detenuto in una prigione del popolo

A rivendicare il rapimento di Aldo Moro, come dicevamo, furono le Br, che in data 18 marzo annunciarono il loro primo comunicato da una cabina telefonica del centro di Roma, nella quale si apprestavano a chiarire chi fosse realmente il presidente della DC e le motivazioni sommarie per cui era stato rapito.

“Chi è ALDO MORO è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di quel regime democristiano che da trent`anni opprime il popolo italiano”.

[…] Da tempo le avanguardie comuniste hanno individuato nella DC il nemico più feroce del proletariato, la congrega più bieca di ogni manovra reazionaria. Questo oggi non basta. 

A tale comunicazione ne seguirono altre otto: comunicati ripresi dalla stampa in cui le Brigate Rosse tenevano decisamente in pugno i membri dello Stato, chiedendo apertamente una trattativa. Comunicazioni intervallate anche dalle lettere dello stesso Aldo Moro, che tentò un dialogo con familiari e, soprattutto, con i membri del partito, cercando in tutti i modi di ottenere la libertà, in un’agonia incessante e stancante in cui l’ansia e la paura umana si scontrarono a viso aperto con le ragioni dello Stato, scatenando in Parlamento una lotta intestina tra chi voleva a salvare Moro (solo il Partito socialista italiano si dichiarò favorevole a una trattativa) e chi invece non voleva assolutamente scendere a patti con i terroristi.

Tra le lettere scritte da Moro nella miniserie di Marco Bellocchio si fa caso soprattutto, oltre a quelle inviate alla moglie Eleonora Chiavarelli (interpretata da Margherita Buy), alla missiva fatta recapitare all’allora ministro degli interni Francesco Cossiga (che definisce Moro il suo “padre politico”). Ma ce n’è una che più di tutti ha lasciato il segno, quella inviata al segretario della DC Benigno Zaccagnini, a cui Aldo Moro fa notare: “il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese…”. Quel sangue che nella finzione sporca le mani di Cossiga, sempre più combattuto tra segnali mistici e operazioni razionali.

La fermezza da parte del governo e l’idea di “sacrificare Aldo Moro” dettata dagli Stati Uniti

A tutto questo il governo reagì con fermezza, mantenendo una linea ferrea nei confronti dei rapitori, tanto più dopo la divulgazione del secondo comunicato, divulgato dalle Brigate Rosse in data 25 marzo 1978, in cui il gruppo di lotta armata annunciava di voler appurare “le dirette responsabilità di Aldo Moro” e di giudicarlo secondo “i criteri della giustizia proletaria”. L’idea di un interrogatorio mise sulle spine le istituzioni, consapevoli del fatto che Moro era a conoscenza di informazioni confidenziali e segreti di Stato che avrebbero potuto coinvolgere non solo l’Italia e i servizi segreti, ma anche i governi di altri Paesi. Nel comunicato, per l’appunto, si faceva riferimento al Piano Solo e allo scandalo del Sifar, oltre ad altri oscuri passaggi nella storia della Repubblica.

Quest’ultimo punto induce a pensare che in effetti, dietro al rapimento di Moro, non ci fossero solo le Brigate Rosse e che tutto fosse stato architettato solo per eliminare il presidente, come sottolineerà la stessa vedova Moro. Una tesi che ha trovato complicità, in tempi abbastanza recenti (nel 2008), nelle dichiarazioni fatte da un ex funzionario di Washington, Steve Pieczenik, il quale ha confermato il coinvolgimento degli Stati Uniti e il fatto di aver lavorato in prima persona – seguendo gli ordini dei segretari di stato Henry Kissinger, Cyrus Vance e James Baker – affinché saltassero gli accordi con le BR per la restituzione di Moro (che in alcune lettere chiedeva tra l’altro in cambio il rilascio di alcuni terroristi) e si mantenesse inalterato l’equilibrio politico vigente in Italia.

La linea della fermezza, insomma, promossa in primis da Andreotti e Cossiga, fu quella che prevalse e che gettò Aldo Moro (il quale a quanto pare era affetto da una forma depressiva) nel definitivo sconforto.

La prigionia di Aldo Moro: dove si trovava il covo segreto delle Brigate Rosse e perché il presidente della DC non fu trovato?

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Ma dove fu detenuto esattamente Aldo Moro durante quei 55 giorni di prigionia? Nella serie di Marco Bellocchio le ore successive al rapimento sono quelle più caotiche, quelle in cui il governo deve decidere il modus operandi e lo fa in modo anche piuttosto avventato, come la proposta (che nella realtà fu fatta da Ugo La Malfa) di introdurre la pena di morte (anche se non fu così esplicito!). All’atto pratico le forze dell’ordine procedettero col rastrellamento di ogni appartamento della Capitale, senza tuttavia trovarlo, nonostante il governo avesse mobilitato ben 13 mila agenti della polizia, effettuando ben 40 mila perquisizioni domiciliari e 72 mila blocchi stradali.
Eppure Aldo Moro si trovava sotto il loro naso, esattamente in un appartamento di via Montalcini 8 (che stranamente non fu perquisito), in una stanza nascosta dietro la libreria, dove era stato trasportato dentro una cassa di legno. Qui il presidente della Dc veniva sorvegliato da Mario Moretti, dirigente della colonna romana delle Brigate Rosse, e da Prospero Gallinari, Germano Maccari e Anna Laura Braghetti. Qui passò i suoi ultimi giorni di vita, scrivendo disperatamente lettere ai suoi colleghi per tentare di salvarsi.

Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro

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Ma quelle lettere non servirono a nulla: il 5 maggio i brigatisti inviarono il nono comunicato, lasciando stavolta la busta rossa in un luogo rappresentativo – il famoso Rondò della Forca (in viale Regina Margherita, a Torino) dove un tempo venivano impiccati i condannati – annunciando che il processo si era concluso e che il prigioniero sarebbe stato condannato, affibbiando la colpa del fallimento della trattativa alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista Italiano.
Da lì a pochi giorni la notizia che avrebbe cambiato per sempre la storia: martedì 9 maggio 1978 i brigatisti chiamarono Franco Tritto, assistente di Moro, informandolo del fatto che avrebbe trovato il corpo dell’onorevole in via Caetani, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. E il corpo di Aldo Moro, infatti, rinvenuto intorno alle 14.00, giaceva esattamente lì, con undici proiettili nel cuore. Il luogo stesso in cui fu rinvenuto andava a sottolineare le intenzioni dietro al suo omicidio, il mancato raggiungimento di una coalizione che, proprio a causa della sua morte, non si realizzò mai. Via Caetani si trova esattamente a 150 metri da via delle Botteghe Oscure (dove risiede la sede storica del Partito comunista) e a 200 metri dalla sede della Democrazia Cristiana (in Piazza del Gesù).

Chi furono i colpevoli?

Tante le ipotesi sui veri responsabili dell’uccisione di Moro. Basti pensare all’oscurità che avvolge persino l’ora esatta in cui arrivò la fatidica telefonata in merito al luogo in cui sarebbe stato rinvenuto il cadavere (non le 12.30, ma le 11.00 del mattino).

In un primo momento e per moltissimi anni la colpa materiale del delitto ricadde sul brigatista Prospero Gallinari, ma nell’ottobre del 1993 a farsi carico apertamente della colpa fu Mario Moretti, il quale confessò di essere stato lui. A complicare il caso provvedono poi dettagli emersi durante l’autopsia, come il ritrovamento di granelli di sabbia sui vestiti dello statista e qualche moneta nel suo portafogli ma, più di ogni altra cosa, il mancato accesso alle missive inviate ai politici del tempo e la mancanza di dettagli fondamentali – rimasti irrisolti nonostante i cinque processi a carico dei tredici brigatisti coinvolti. A condire il tutto provvede l’intervento di Ferdinando Imposimato, al tempo giudice istruttore del caso Moro, il quale scrive: “L’uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri. Se non mi fossero stati nascosti alcuni documenti li avrei incriminati per concorso in associazione per il fatto. I servizi segreti avevano scoperto dove le Br lo nascondevano, così come i carabinieri. Il generale Dalla Chiesa avrebbe voluto intervenire con i suoi uomini e la Polizia per liberarlo in tutta sicurezza, ma due giorni prima dell’uccisione ricevettero l’ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia. Quei politici sono responsabili anche delle stragi: da Piazza Fontana a quelle di Via D’Amelio”.

Esterno Notte mostra le immagini dei (finti) funerali di Aldo Moro

Eleonora Chiavarelli, la moglie di Aldo Moro, non perdonò mai Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini, al punto che vietò la celebrazione di un funerale di stato, in ottemperanza a quanto espresso dallo stesso consorte in una delle ultime lettere. Scriveva infatti Aldo Moro:

“Per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.

Così, per volere di Eleonora e dei figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni, i funerali si svolsero in forma privata presso la chiesa di San Tommaso di Torrita Tiberina, mentre il governo decise di celebrare lo stesso i funerali di Stato, il 13 maggio del 1978 presso la basilica di San Giovanni in Laterano, ma con un feretro vuoto.

Quanto c’è di vero dietro le sedute spiritiche?

In Esterno Notte si fa riferimento a momenti mistici: il personaggio di Cossiga si fa portavoce di una speranza che passa tramite telefonate e veggenti, magari sogni rivelatori. Ma davvero si tentò di cercare il presidente della Dc con tali mezzi?

Pare che una seduta spiritica ci fu, sedici giorni dopo il rapimento (il 2 aprile 1978), presso un casolare sito nella campagna bolognese, di proprietà del professore Alberto Clò, che partecipoò alla seduta insieme ad altri undici persone – perlopiù docenti universitari insieme alle loro mogli – e tra questi vi era niente meno che Romano Prodi. Dall’evocazione degli spiriti di don Sturzo e La Pira vennero fuori tre indizi: Bolsena, 06 (che sarebbe il prefisso telefonico di Roma) e Gradoli.
La notizia arrivò ai vertici tramite lo stesso Romano Prodi, che riferì il tutto (il 4 aprile) a Umberto Cavina, portavoce del segretario della Dc Benigno Zaccagnini, il quale a sua volta ne parlò subito con Zanda (portavoce del ministro dell’interno Francesco Cossiga).

A mobilitarsi fu il capo della polizia Giuseppe Parlato, ma a quanto pare non si arrivò subito a collegare via Gradoli col comune di Roma (si pensava si trattasse dell’omonimo comune in provincia di Viterbo). Così l’operazione condotta dalla polizia il 6 aprile 1978 si rivelò inutile, ma la mattina del 18 aprile, grazie a una perdita d’acqua probabilmente voluta, le forze dell’ordine scoprirono il nascondiglio in cui si erano nascosti, durante il rapimento di Moro, i brigatisti Moretti e Balzerani che però, appresa tempestivamente la notizia, riuscirono a fuggire.

In seguito, in un’intervista del 12 aprile 1997, Andreotti dichiarò che la seduta spiritica era stata usata come escamotage per far uscire un’informazione in possesso da parte di uno dei docenti universitari, ricevuta a quanto pare all’interno degli ambienti di Autonomia Operaia.

In merito ai brigatisti accusati durante il processo nel caso Moro la maggior parte di essi furono condannati all’ergastolo. Ma che fine hanno fatto oggi? Come ha mostrato anche un servizio di Milena Gabanelli, Rita Algranati sta attualmente scontando l’ergastolo dopo essere stata estradata nel 2004; Barbara Balzerani, che ha partecipato all’ergastolo, è stata condannata all’ergastolo ma attualmente usufruisce della liberazione condizionale, al pari dell’intestataria e inquilina dell’appartamento Anna Laura Braghetti, mentre e Germano Maccari è morto nel carcere di Rebibbia mentre scontava una pena a 23 anni di reclusione. Alessio Casimirri, che presidiava la parte alta di via Fani, è fuggito in Nicaragua, dove attualmente gestisce un ristorante, mentre il suo complice in questo impegno – Alvaro Lojacono – si trova in Svizzera. Raimondo Etro, che all’epoca del rapimento era stato incaricato della custodia delle armi, ha poi collaborato con i magistrati, ottenendo una riduzione della pena (20 anni invece di 24 anni e 6 mesi) e attualmente è in stato di libertà. Adriana Faranda di anni ne ha scontati solo 15, dissociandosi dalla lotta armata (era stata la “postina” del sequestro Moro).

La mente del sequestro Moro, Mario Moretti, oggi è in semilibertà. La stessa sorte è toccata a coloro che spararono alla scorta in via Fani o, almeno, Franco Bonisoli e Valerio Morucci, mentre Raffaele Fiore ha ottenuto la liberazione condizionale e Prospero Gallinari è deceduto nel 2013. Infine Bruno Seghetti, che guidava l’auto usata per trasportare Moro dopo l’agguato, è oggi in libertà condizionale.

Fonte: Storica