Deepwater – Inferno sull’oceano: la storia vera che ha ispirato il film
È diventato il disastro petrolifero per eccellenza: ripercorriamo le tappe principali dell'esplosione avvenuta sulla piattaforma Deepwater Horizon nel 2010, da cui è stato tratto l'omonimo film di Peter Berg.
La tragedia ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, avvenuta nel 2010 nel Golfo del Messico, ha scosso l’opinione pubblica americana e prodotto – oltre a svariate indagini giornalistiche e a massicce manifestazioni di protesta – un film che ripercorre le tappe più importanti dell’incidente mostrando in modo piuttosto efficace le due facce di una stessa medaglia: da un lato, la negligenza e l’incuria dell’essere umano, che per l’ennesima volta ha anteposto motivazioni economiche alla sua stessa salute e a quella dell’ambiente circostante; dall’altro, l’eroismo di chi, sia nel momento del disastro che nei mesi successivi, ha contribuito a porre fine al dramma anche a costo della propria vita.
Con Deepwater – Inferno sull’oceano il cinema si fa inchiesta: merito della regia spettacolare ma fedele di Peter Berg (affezionato agli eventi catastrofici reali della recente storia statunitense: suoi anche Lone Survivor, 2013, e Boston – Caccia all’uomo, 2016) e dell’interpretazione mimetica e partecipata di Mark Wahlberg nei panni di Mike Williams, che ormai da anni alterna i ruoli puramente muscolari (Max Payne, 2008; Transformers 4, 2014) a prove recitative più autoriali e qualitative. Ma cos’è esattamente successo il 20 aprile 2010, al largo della Louisiana? Ricostruiamo i passaggi salienti della vicenda.
Deepwater: un mostro delle acque
La Deepwater Horizon (letteralmente: orizzonte profondo) era una delle piattaforme petrolifere più importanti della azienda svizzera Transocean. Alcuni dati: 9000 barili di petrolio giornalieri, 130 persone ospitate, quasi 2500 metri di perforazione potenziale (intesa come soglia massima in cui operare). Un colosso del commercio di idrocarburi, che nel 2010 è affittata dalla multinazionale British Petroleum per una cifra esorbitante. Del resto, il valore stesso della struttura ammontava all’incirca a 560 milioni di dollari.
Questa spaventosa macchina perpetua, in funzione 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, si inceppa il 20 aprile 2010: mentre sta completando la perforazione del Pozzo Macondo, su un fondale profondo 400 metri, qualcosa va storto ed esplode un violentissimo incendio. Il film di Peter Berg ricostruisce la catena di malfunzionamenti con grande abilità: a seguito di un test sulla pressione del cemento, la struttura collassa innescando una grave esplosione; il successivo tentativo di sigillare il pozzo, se possibile, aumenta il danno, incendiando il petrolio e uccidendo quattro persone. Ma in quelle prime ore il bilancio è più serio: a morire saranno infatti in tutto ben undici dipendenti della piattaforma.
Deepwater: un incubo di 106 giorni
Incredibile, ma vero: l’impianto, nelle immediate ore successive alla tragedia, non viene definito come un pericolo imminente per la salvaguardia dell’ambiente. Un’affermazione ripetuta anche a giorni di distanza dal contrammiraglio di Guardia Costiera Landry, in un’intervista per l’emittente ABC. I fatti, come sappiamo, lo smentiranno, e così – dopo il salvataggio dei superstiti, recuperati dalla nave Damon Bankston – la Deepwater Horizon ormai abbandonata si rovescia provocando la fuoriuscita incontrollata del petrolio greggio.
I successivi tentativi di arginare la falla non danno i risultati sperati: cupole di cemento e acciaio (progetto Top Kill), imbuti convogliatori (progetto Lower Marine Riser Package) e veicoli sottomarini per chiudere le valvole di sicurezza falliscono la loro missione, e a tre mesi di distanza dalla scoppio lo sversamento in mare dell’oro nero è stimato tra i 500 e gli 800 milioni di litri. All’emorragia si riuscirà a porre fine solo dal 3 agosto 2010, grazie all’operazione Static Kill: un’iniezione di fango e cemento attraverso i pozzi sussidiari, che si conclude il 19 settembre.
Deepwater: una carneficina senza colpevoli
Il bilancio è agghiacciante: un terzo delle acque americane che si affacciano sul Golfo sono state chiuse, così come il 20% delle spiagge circostanti, e le sostanze chimiche usate per sciogliere gli idrocarburi non hanno ridotto la quantità di greggio disperso nell’ambiente, andatosi a depositare a 1600 metri di profondità. Ma le conseguenze peggiori, naturalmente, sono sull’ecosistema umano e animale: si stima che le popolazioni locali – non è dato sapere per quanti anni o decenni – subiranno un’intensificazione delle malattie respiratorie e tumorali; mentre per quanto riguarda la flora e la fauna la contaminazione coinvolge e coinvolgerà – oltre a pesci, tartarughe, squali e varie categorie di uccelli acquatici – specie già a rischio estinzione. Un’ecatombe ben simboleggiata, nel film di Berg, dal pellicano spaventato e coperto di petrolio che vola sul ponte della Deepwater durante il dramma.
Deepwater si chiude significativamente sulle immagini del vero disastro e sulla testimonianza del vero Mike Williams. Trova spazio anche un’amara considerazione, che riporta fedelmente la ricostruzione operata dai giornalisti David Barstow, David S. Rohde e Stephanie Saul: nessun dipendente di Transocean e British Petroleum è stato processato per le sue azioni. A restare è solo la memoria degli 11 operai che hanno perso la vita, e l’impressionante presa di coscienza che il disastro ambientale della Deepwater Horizon è stato il più grave della storia americana, avendo superato di oltre dieci volte per entità quello della Exxon Valdez nel 1989. Se il compito del cinema è anche quello di essere civile e di denuncia, è indubbio che l’opera di Peter Berg – per quanto conceda alcune concessioni alla retorica – colga pienamente nel segno.