Worst 10: i 10 film peggiori del 2016 da Equals ad Alice attraverso lo specchio

Ebbene si, manca ancora qualche giorno alla Befana, ma di certo c’è un po’ di gente che dovrà prepararsi a qualche tonnellata di carbone!! In questo articolo parleremo dei Worst 10, delle dieci disgrazie cinematografiche più clamorose di questo 2016, i dieci film che ci hanno fatto vergognare di aver speso dei soldi per il cinema.

Ecco i 10 film peggiori del 2016

 Victor – La storia segreta del dottor Frankestein

Victor - La storia segreta del Dottor Frankenstein

Apriamo la nostra worst 10 dei film peggiori del 2016 dando a Cesare ciò che è di Cesare. Paul McGuigan ci ha provato. Ha pensato di prendere il famoso duo Dott. Frankestein – Igor e di spiegarci come e perché i due abbiano creato la famosa creatura, indagando sulla natura del loro rapporto, le loro personalità e cercando allo stesso tempo di divertire.

Del resto McGuigan è tutto tranne che un regista banale e poco coraggioso, da molti è considerato anche superiore a Guy Ritchie, se non altro più genuino e meno commerciale. In effetti i suoi Gangster N°1, Slevin e gli episodi creati per le serie Scandal, Sherlock e The Family ci hanno mostrato la creatività e l’abilità di un regista molto atipico.

Tuttavia agli amanti di McGuigan bisogna anche ricordare che è sempre il regista di Push, Wicker Park e The Acid House. Talentuoso certo, ma anche discontinuo e questo Victor – la storia segreta del Dott. Frankestein purtroppo ha mostrato la parte peggiore del regista scozzese classe 1963.

Il film è in tutto e per tutto un prequel, posizionandosi in una linea temporale antecedente agli eventi noti a tutti fin dal 1818, quando Mary Shelley pubblicò il suo immortale romanzo. Tuttavia la sceneggiatura del giovane Max Landis è opaca, confusa, ripetitiva nel mostrarci il contrasto tra un uomo affascinante, carismatico, narciso e sicuro di sé (Il Dott. Frankestein di James McAvoy) e un Igor (Daniel Radcliffe) intelligente e talentuoso ma assolutamente isolato e del tutto slacciato da ogni tipo di rapporto sociale.

La loro alchimia viene però del tutto vanificata dal tono troppo leggero e pop scelto per caratterizzare la storia, che in certi momenti sembra uscita dalla mente di gente del calibro di Bay o Sommers, perdendo ogni fascino e risultando assolutamente perdente nel tentativo di creare ciò che Ritchie aveva fatto con il suo Sherlock: una rivisitazione in chiave post-moderna di un grande classico della tradizione british.

Il motivo è semplice: non è che Frankestein offra gli stessi incredibili sviluppi del celebre detective londinese e del suo assistente (con buona pace di Mary Shelley). Da sempre infatti è la Creatura il piatto forte. Tolta lei risulta difficile e anche un pò borioso inventarsi alcunché. In ultima analisi, non è che morissimo dalla voglia di sapere quanto si volevano-non si volevano bene il Dottore e Igor, e il trasformare tutto in allegra farsa non basta. Se poi fai un finale brutto e senza idee…allora tanti saluti

Voto: Potrebbe andare peggio – E come? – Potrebbero fare un sequel!!

Il Traduttore

Il Traduttore

Andrei (Kamil Kula) è uno studente romeno, in Italia per studi, che nonostante la borsa di studio è costretto a sbarcare il lunario come cameriere e come traduttore per la questura, dove viene chiamato quando serve. Andrei ha lasciato la sua ragazza in patria e l’impiego alla questura nei suoi piani dovrebbe aiutarlo ad avere un permesso di soggiorno per la sua dolce metà.

Gli intenti di Andrei di rimanere il ragazzo serio e studioso di sempre però naufragano nel momento in cui incontra la bella Anna Ritter (Claudia Gerini), antiquaria da poco vedova, che cerca in traduttore per i diari del marito.  Inutile dire che tra il giovane e la non più giovanissima Anna sarà inevitabile il nascere di una passione che cambierà entrambi.

La prima domanda che uno spettatore si fa dopo aver visto il film di Massimo Natale è: “Ma esattamente che cosa ho appena visto? Che tipo di film? Si tratta di un thriller? Un film drammatico? Un noir? Un film erotico o un buffet?

La sceneggiatura è talmente scontata e allo stesso tempo confusa che si fa fatica a trovare un iter narrativo riconducibile alla nostra comune esperienza di fruitori cinematografici, con dialoghi di una banalità assurda, con dei personaggi che non sono né approfonditi né resi un minimo accattivanti o realistici.

L’elemento erotico (che poteva dare tanto al film) è talmente sviluppato male da rendere il film paragonabile solo a quel mezzo fallimento di Original Sin, che conteneva alcune delle scene di sesso peggiori di sempre.

In ultima analisi il film mette così tanti elementi nel calderone da non farci capire nulla, sviluppandoli tutti male e creando un film senza capo né coda, tra l’altro un pò presuntuoso e vanaglorioso.

Non bastano un’ottima fotografia firmata da Daniele Ciprì e il buon montaggio di Annalisa Schillaci a salvare un film sciapo e senza alcun mordente, né bastano le grazie milfose della Gerini (sorry Claudia ma grazie lo stesso).

Voto: ma si vestono tutti di nero?

Equals

Strana la scorsa Mostra del Cinema di Venezia, in grado di proporre film di altissima qualità ma anche di offrire, come tributo alla bruttezza, un’altrettanta nutrita schiera di opere.

Impossibile non mettere in questa nostra lista di film peggiori del 2016 Equals, pellicola prodotta nientemeno che da Ridley Scott, scritta da Nathan Parker e diretta da Drake Doremus. Doremus si era segnalato per diverse pellicole molto eterogenee e originali sui rapporti umani (in special modo quelli di coppia) come Douchebag, Like Crazy, e Breathe In. Nathan Parker invece è tutt’ora una figura professionale avvolta nel mistero.

In un futuro ipertecnologico e ovattato, la società civile si è autoisolata in quello che sembra un gigantesco studio dentistico o una di quelle cliniche per attrici che cercano di scacciare disperate la mezza età.

I sentimenti sono stati eliminati (pure qui? ma inventarsi qualche cosa di nuovo?) grazie a continui esperimenti genetici che però falliscono quando una malattia risveglia nelle persone paura, dolore, gioia, amore…insomma il pacchetto completo.

Chi la contrae attraversa diverse fasi e quella finale è considerata la più violenta, motivo per il quale queste persone vengono allontanate e poi uccise. Questo è il destino che aspetta Nia (Kirsten Stewart) e Silas (Nicholas Hoult). Nel cast sono presenti anche Guy Pearce e Jacki Weaver ma neppure loro bastano a risollevare le sorti di un film prevedibile, banale, poco ispirato e figlio di troppe scelte sbagliate. Tornare in carreggiata è impossibile.

Il primo errore è sicuramente quello di aver mascherato un film d’amore da film sulle tematiche fantascientifiche e di averlo fatto anche male, dal momento che da Blade Runner a Equilibrium, da The Giver a The Divergent ormai il genere fantascientifico ha mostrato con ogni modalità questo futuro dove l’emozione è bandita, l’originalità un crimine e l’essere autentici un crimine imperdonabile.

Oltre a questo problema c’è quello del cast che a parte Guy Pearce offre veramente poco. Kristen Stewart oltre a essere carina ha mostrato solo in un paio di pellicole di avere qualche cosa di più del suo bel broncio e degli occhietti da cerbiatto da mostrare al pubblico. Nicholas Hoult è dotato di un buon talento ma pure lui non ha mai brillato per versatilità, interpretando bene o male sempre il ragazzino un pò fuori di testa ma dal cuore d’oro fin dai tempi di About a Boy per finire con l’ultima saga degli X-Men.

Messi assieme entrambi hanno facilitato il compito a una critica impietosa, pronta a crocifiggere giustamente il film a ogni livello.

Voto: ma non ci siamo già visti?

The Legend of Tarzan

Vi ricordate le musiche di Phil Collins, i magici disegni della Disney targati Daniel St. Pierre e Glen Keane, la simpatia, la commozione, i paesaggi, la regia di Chris Buck e Kevin Lima? Era il 1999 e Tarzan di lì a poco sarebbe diventato uno dei più grandi successi di sempre della Disney, aggiudicandosi l’Oscar per migliore colonna sonora e canzone, sancendo la rinascita di fine millennio del concetto di animazione.

Ecco, fate una cosa. Riguardatevelo. E lasciate perdere la pellicola di David Yates di quest’anno. Sì, lo sappiamo, è lo stesso regista di ben quattro film della saga di Harry Potter, nonché di Animali Fantastici e Dove Trovarli ma, fidatevi, vedere il suo The Legend of Tarzan potrebbe spingervi a gesti inconsulti in vista della fine di questo 2016 annus horribilis…

Frutto di un lavoro risalente addirittura al 2003, sulla base della sceneggiatura di John August, e passato di mano in mano fino ad arrivare in quelle (a dir poco maldestre) di Craig Brewer e Adam Cozad (chi??? ecco, appunto..), ha visto Yates aggiudicarsi nel 2012 la regia di quello che doveva essere il fenomeno cinematografico di questo 2016.

L’ingombrante produttore Jeyy Weintraub aveva deciso di far interpretare il celebre uomo-scimmia nientemeno che da sua maestà acquosa Micheal Phelps, probabilmente pensando di poter bissare il successo ottenuto a suo tempo dal più celebre Tarzan di sempre: l’asso del nuoto Johann Peter Weißmüller che divenne un divo negli anni ’30 e ’40 proprio interpretando l’uomo della foresta.

Tuttavia per farlo ricredere a Yates bastò mostrare due minuti di Phelps al Saturday Night Live. Il toto nomi si concentrò allora su Henry Cavill, Tom Hardy, Charlie Hunnman ma alla fine fu scelto Alexander Skarsgård, che in quanto non americano sembrava più adatto a ricreare la magia esotica che a suo tempo Christopher Lambert (nella versione del 1984) aveva donato al celebre personaggio di Edgar Rice Burroughs. 

Il cast è poi arrivato ad includere gli ormai eternamente richiesti Samuel L. Jackson e Christopher Waltz, con l’astro nascente Margot Robbie e lo statuario Djimon Hounsou a completare il tutto. Con queste premesse, un regista così stimato, un grande cast e 180 milioni di budget, le speranze di vedere un film quantomeno decente però erano rimaste abbastanza alte, non fosse altro per la legge delle probabilità. Ed invece…

Ed invece questa nuova versione di Tarzan è stata un vero e proprio incubo, nonostante il cast ce l’abbia messa tutta a dare un senso ad una sceneggiatura a dir poco orrenda e ad una regia confusa come poche altre volte.

Certo avere un bietolone come Skarsgård non è che deve aver aiutato molto il tutto; tanto intenso, sovente tragico ed ispirato era stato Lambert nel 1984 tanto moscio, ripetitivo e inespressivo è sembrato questo fustacchione scandinavo iperpalestrato. Come se tutto questo non bastasse ci si è messa pure la bassissima qualità della CGI, che doveva essere il fiore all’occhiello del film e invece sembrava uscita da un videogioco scadente di metà decennio.

Margot Robbie a conti fatti rimane probabilmente l’unica nota positiva di un film così prevedibile e melenso da far sembrare certe telenovelas sudamericane capolavori della HBO. I dialoghi, sopratutto, hanno sovente toccato vette di banalità a dir poco stupefacenti, condannando questo film a essere uno dei tanti prodottini estivi senz’anima, fatti apposta per prendere qualche soldo al popolo bue ed essere subito dimenticati.

Voto: You Won’t Be in My Heart

L’estate addosso

Vi era un tempo in cui Gabriele Muccino era un vanto per il nostro cinema. Certo, divideva, come qualsiasi artista che si rispetti, tra chi lo accusava di furberia e ruffianeria e chi invece ne lodava originalità, il coraggio e la volontà di affrontare di petto la realtà sociale che ci circondava, di parlarci dei sentimenti, del dolore, dell’umanità…

Il successo ottenuto oltreoceano con La ricerca della felicità e Sette Anime sembravano aver dato ragione a chi aveva scommesso su Muccino già ai tempi dei sorprendenti L’Ultimo Bacio e Ricordati di Me, che con il senno di poi possiamo considerare film generazionali nell’accezione più positiva del termine..

E allora perché questa involuzione? Perché questo scadere nel mieloso? Nel commerciale? Nel finto e nel banale? Perché Quello che so sull’amore?  Perché Padri e Figlie? Con soli due film Muccino si è giocato ogni credibilità negli USA, e non pago si è concesso  L’Estate Addosso (recensione).

La storia è semplice: Marco (Brando Placito) ha un incidente con lo scooter e decide di usare i soldi incassati dall’assicurazione per fare un viaggio a San Francisco, ospitato da una coppia gay. Tuttavia a sua insaputa anche la rigida e antipatica compagna di classe Maria (Matilda Lutz) è stata invitata a prendere parte a questa avventura oltreoceano. Col tempo però i quattro impareranno ad andare oltre le apparenze, ad aprirsi e a scoprire qualcosa su sé stessi che non pensavano di possedere.

Non è facile fare dei buoni film sull’adolescenza, sulla crescita e sui passaggi di età. Il rischio di scadere nel melenso è dietro l’angolo ma esistono delle gloriose eccezioni: Stand By Me, Un mercoledì da Leoni e L’attimo fuggente ne sono forse gli esempi migliori, ma in fin dei conti anche pellicole leggere ma genuine come Il Tempo delle Mele e Grease hanno ben descritto il percorso di crescita e il concetto di gioventù in epoche diverse e con diverse sfaccettature.

Ecco questo film di Muccino appartiene purtroppo a tutt’altra categoria: quella dei fallimenti. Insipido, banale, retorico, con dialoghi che fanno rimpiangere i bigliettini nei baci perugina o certi roboanti libri di Valerio Massimo Manfredi.

Poche cose sono più irritanti dei monologhi esistenziali senza capo né coda da parte di un 18enne che non sa nulla della vita e pretende di dare lezioni, e Muccino in questo errore ci cade per tutto il film con entrambe le scarpe. Il regista poi non riesce a rinunciare alla tentazione di condire il tutto con una buona dose di pruriginosa incertezza sessuale tra i protagonisti (ma siamo sicuri che sia così diffusa nella vita reale? No, una semplice curiosità…) creando l’ennesimo stomachevole triangolo.

Naturalmente non mancano i luoghi comuni su americani e italiani, su gay e le frasi trite e ritrite su amore e morte.

Su tutto aleggiano le note di Jovanotti, il che è sicuramente positivo… se ti piace Jovanotti. Altrimenti è una tortura nella tortura, ma forse a questo non avevano pensato Muccino e i produttori, vero? Non basta il finale originale e un po’ più genuino a salvare il tutto da una stroncatura tanto più fragorosa se si pensa che questo filmetto è stato portato a Venezia sulle ali di un’entusiasmo a dir poco incomprensibile, contribuendo alla pessima figura del cinema italiano alla Biennale.

Il tutto messo assieme fa ancora venire i brividi…

Voto: Ma non era il fratello bravo?

Pay the ghost

Pay the Ghost

Uli Edel non è un regista qualsiasi, ma l’uomo che ha portato sullo schermo film di grande attualità, di grande impatto e capaci di mostrarci alcuni dei drammi più reali e genuini del nostro tempo.

Ha parlato del terrorismo con La Banda Baader-Meinhof, con I Ragazzi dello Zoo di Berlino nel 1981 era riuscito a toccare vette non indifferenti parlando del dramma della droga tra i giovani. Lo stesso con Last Exit to Brooklyn e anche quando aveva fatto fiasco con Body of Evidence era riuscito a riabilitarsi spostandosi sul piccolo schermo, con miniserie ben fatte come Avalon, Giulio Cesare e Houdini.

Purtroppo con questo Pay the Ghost Uli dovrà aggiungere un’altro clamoroso fiasco a quel Body of Evidence dove ebbe la bruttissima idea di dare fiducia a Madonna (nota ammazzafilm).

Qui ad ergersi a carnefice è stato nientemeno che Nicolas Cage, che per tutti i 94 minuti di questo film non convince nessuno, dando vita ad una delle sue peggiori performance di sempre. Certo Nicolas non era aiutato dalla sceneggiatura, che mischiava senza discernimento elementi fanta-horror con una linea temporale confusa, il tutto con un padre in crisi per la perdita del figlio la notte di Halloween.

Le idee insomma non erano molto chiare o genuine, anzi, il film è un mix di cliché e déjà vu di ambientazione pauroso-apocalittica e non passa minuto senza che si vedano i grandi classici del cinema horror di questi anni: fantasmi, cassette maledette, catastrofi preannunciate, musiche che anticipano il momento climax come neanche negli anni ’50…insomma un calderone poco appetibile e credibile.

Se la prima parte suggeriva infatti un qualche sviluppo originale, la seconda ammazza ogni speranza di essere di fronte a qualche cosa di più di un pessimo b-movie senza arte nè parte, tanto che è già di esser grati per non averci visto buttati dentro Dracula, il Lupo Mannaro e la Mummia come in certi filmacci di Stephen Sommers. Di sicuro un’altro tra i film peggiori del 2016.

Voto: Il fantasma del film passato

 Il cacciatore e la regina di ghiaccio

charlize-theron- il cacciatore e la regina di ghiaccio

Pensavate che ci fossimo dimenticati di questo poltergeist del peggio che Hollywood è in grado di produrre se ci si mette di impegno? Ebbene no, per nostra e vostra fortuna no, così la prossima volta che vedrete qualcosa che gli assomiglia, anche solo parzialmente, saprete che dovrete scansarlo con la stessa prontezza con cui il compianto Muhammad Ali scansava i manrovesci degli avversari.

Seguito del già di per sé nauseabondo Biancaneve e il Cacciatore del 2012, che ci aveva regalato l’assoluta certezza che Kristen Stewart non sapesse recitare e che Chris Hemsworth fosse un simpatico palestrato e basta, questo nuovo capitolo è se possibile peggiore del precedente.

Scopriamo che la malvagia Ravenna (Charlize Theron forse l’unica che un po’ di salva) ha una sorella, la bella e romantica Freya (Emily Blunt, espressiva come un palo della luce) decisa a sposare in segreto uno dei suoi sudditi nonostante la differenza di classe sociale. Tuttavia per qualche oscura ragione, la notte del matrimonio il novello sposo uccide la bambina che avevano da poco avuto.

Il dolore risveglia in Freya il potere di controllare il ghiaccio, spingendola ad edificare un crudele regno nel nord, dove comincia a creare un esercito addestrando bambini rapiti dalle terre vicine. Ed è tra questi giovani orfani che incontriamo Eric (Thor senza la tinta) e Sara (Jessica Chastain, ma come ci sei finita qui?).

Cresciuti assieme, finiscono per disubbidire alla regola fondamentale creata dalla loro regina in piena crisi post fine relazione: innamorarsi (mamma che originalità!).

Separati con la forza si incontrano dopo diversi anni, quando Eric è mandato da Biancaneve a scoprire che fine ha fatto lo Specchio Magico, della cui distruzione aveva incaricato una scorta sparita senza lasciare traccia. In breve Eric scoprirà che dietro la sparizione si cela proprio Freya, decisa ad usare la magia dello specchio per conquistare il regno di Biancaneve, risvegliando Ravenna.

Bastano queste poche righe a far comprendere quanto agghiaccianti (letteralmente) fossero le premesse per questo spin-off/prequel/sequel (o come lo volete definire) che distorce e banalizza così tanto i personaggi e la trama da rendere difficile ogni tipo di comprensione.

Come se non bastasse i produttori si sono mostrati oltremodo intelligenti nell’affidare la regia all’esordiente francese Cedric Nicolas-Troyan che fin a questo film aveva fatto da supervisore agli effetti o aiuto regista in sole altre cinque pellicole. Far dirigere quattro pezzi da novanta da un’esordiente? Si avete capito bene.

Come se non bastasse la sceneggiatura è nata dalle mani di altri due semisconosciuti addetti ai lavori: Evan Spiliotopoulos (sceneggiatore di film d’animazione per il piccolo schermo di serie b) e Craig Mazin (la penna di “filmoni” come Scary Movie 3 e 4).

Insomma c’erano tutte le premesse per un grande capolavoro della cinematografia mondiale, ed infatti…ecco un’altra pellicola degna di essere inclusa tra i film peggiori del 2016.

Questo secondo (e speriamo ultimo) capitolo dell’ennesima saga del kitsch in salsa gotica distrugge il significato più profondo e poetico di ciò che avevano creato a suo tempo Hans Christian Andersen in La Regina delle Nevi e i Fratelli Grimm in Biancaneve. Lì dove c’era magia, grazia, poesia e significati ci sono esclusivamente effettacci, mossette da kung-fu, dialoghi di quart’ordine, con scenografie digitali e costumi degni delle serie tv cafone anni Novanta.

Il numero di sguardi languidi all’interno del film non fa che contribuire ad aumentare l’ansia, dal momento che si resta in perenne attesa di una voce conturbante che finalmente esclami “le nouveau fragrance de…” che almeno dia un senso al tutto.

Guardandolo ci si ritrova a sperare che tutto finisca al più presto e con meno dolore possibile, come quando si è rinchiusi in quelle moderne camere di tortura che sono i pranzi di Natale tra parenti…

Voto: Lunghetto sto videoclip di Katy Perry…

Fuga da Reuma Park

Ci sono molti film sbagliati che hanno infettato i nostri schermi e probabilmente si potrebbero fare altre due Worst 10, visto l’andazzo di questo cinema così ricco di ‘effettacci’ ma povero di idee che ci circonda.  Ma poche cose possono ferire come vedere un simbolo della comicità italiana, che tanto ci ha dato dalla sua nascita, targata 1985, autodistruggersi in questo modo.

Sì perché questo Fuga da Reuma Park è senza ombra di dubbio il punto più basso mai toccato da Aldo Giovanni e Giacomo. Ancora abbiamo negli occhi l’iter artistico di chi ci ha deliziato, fatto ridere e allo stesso tempo riflettere prima dai palcoscenici, poi dal tubo catodico e infine sul grande schermo, donandoci risate che mai scorderemo, sovente agrodolci, ma proprio per questo così preziose, quando tutto attorno era un cinepanettone tette e scoregge.

Il loro Tre Uomini e Una Gamba è da anni considerato una pietra miliare del nostro cinema, un film comico ma non solo, un opera che racchiudeva il senso di incertezza dell’Italia alle porte del nuovo millennio in quella stagione irripetibile degli anni Novanta, piena di dubbi, incognite e speranze.

Con Così è la Vita e Chiedimi se Sono Felice non si erano solo confermati ma avevano alzato il livello, sempre facendo ridere certo, ma descrivendoci in modo perfetto l’iter di noi poveri italiani qualunque. Il loro essere italiani non era però quello beota e bolso creato dai Vanzina e da Neri Parenti, ma più vicino alle sfortunate e immeritate vicissitudini di un Paperino, con le rate da pagare, i parenti serpenti, il capo infame e la vita che ti rovescia ogni sorta di cataclisma addosso.

Il tutto però sempre garbato, sempre genuino, intelligente e ben congegnato. Gli sketch e le gag erano qualche cosa di irresistibile, tanto che alcune sono entrate tra i nostri modi di dire quasi senza che ce ne accorgessimo…”Ma guarda che il mio falegname con 30.000 lire la fa meglio” “Turnica..” Developpa” “Imbecille nel senso che è imbelle” “E così domani ti sposi?”.-“Sì, ma niente di serio!”. L’elenco potrebbe continuare per un bel pò..

E allora dove è cominciata la fine? Forse, come per certi cantanti o prodotti di una certa epoca, come gli 883, Backstreet Boys, Benigni o i Simpsons, anche Aldo Giovanni e Giacomo non sono riusciti a tenersi al passo col nuovo frenetico millennio?

Forse che la loro comicità garbata non è più di moda? O forse sazi della consacrazione e del successo si sono seduti e hanno rinunciato a mettersi in gioco? Probabilmente tutte queste ipotesi messe assieme creano quella verità che si è manifestata nelle orribili pellicole dal 2008 in poi…di cui questo Fuga da Reuma Park è l’apogeo.

Vedere infatti i nostri eroi nel 2041, invecchiati e abbandonati da familiari, tentare di scappare da un ospizio lager verso Rio de Janeiro, in un iter narrativo sconclusionato e senza capo né coda produce le stesse tossine che Stanlio e Onlio donarono al tramonto della loro carriera negli anni 40, quando il brio e l’ispirazione li avevano ormai lasciati.

Il trio ha annunciato di aver voluto lasciar stare sceneggiature elaborate e strutturate per sposare una sorta di improvvisazione più vicina alla dimensione teatrale pura, quasi un flusso di coscienza caotico ed istintivo.

Ma il risultato è deludente, stantio, smorto e senza brio. Una vera e propria ecatombe dell’allegria e della sensibilità che ce li aveva fatti amare. E guardando la triste deriva decadente che il Trio ci ha mostrato nell’ultimo Sanremo, negli ultimi film, beh…non può che scenderci una lacrima pensando a ciò che erano loro..e anche a ciò che eravamo noi.

Voto: Siamo rimasti offesi! Ma di brutto brutto brutto!

Nonno scatenato

nonno scatenato

Jason (Zac Efron) è un giovane avvocato che lavora nello studio del padre, la sua sembra una vita tranquilla, di un uomo ormai lanciato verso il successo, prossimo alle nozze con la sua storica fidanzata. Tuttavia a pochi giorni dalle nozze sua nonna muore dopo una lunga malattia e l’evento lo porta a riavvicinarsi col nonno Dick (Bob De Niro), a cui era molto legato durante l’infanzia. Seguendo le ultime volontà della moglie, Dick decide di tornare a divertirsi senza freni, trascinando il nipote in un’avventura che con la tranquilla vita da borghese altolocato ha ben poco a che fare.

L’idea di partenza era molto buona, piena di potenzialità per creare un film dalla comicità agrodolce, capace di parlare delle diverse fasi della vita e di come interpretare la stessa in modo leggero ma intelligente. Ma si sa che quando di mezzo ci sta Dan Mazer (sceneggiatore e produttore di Sasha Baron Coehn, qui regista) è molto difficile che il buon gusto sia di casa. Magari l’originalità, l’humor dissacrante, la fantasia ma di certo non il tatto e la poesia.

Purtroppo in questo Nonno scatenato non vi è nessuna qualità di nessun tipo. Il film è stato letteralmente massacrato dalla critica, che giustamente una volta tanto è stata concorde nel definirlo uno dei peggiori film degli ultimi anni e di certo il punto più basso mai toccato da sua maestà Robert De Niro.

E in effetti se al suo posto ci fosse stato un qualsiasi attore appesantito dall’età nessuno avrebbe trovato nulla da ridire (“oh Zac Efron in un’altro film orrendo…vabbè…”), ma vedere De Niro umiliarsi in un film così insulso, volgare, senza alcun messaggio se non qualche velata critica al perbenismo borghese (poco riuscita) fa veramente male.

Soprattutto perché non è stata la prima volta, basti pensare a Grudge Match, fiasco nato dalla sinergia tra De Niro e quel Sylvester Stallone che invece qualche bel boccone cinematografico pare ancora riuscire a sfornare. Se poi tiriamo in ballo The Family, Killing Season e The Big Wedding ci rendiamo conto di come quello che alcuni reputano il più grande attore di ogni tempo si sia infilato da tempo in una sorta di gorgo professionale autodistruttivo. Perché De Niro non è un Bela Lugosi con problemi di affitto e salute, né un Jonnhy Depp in crisi di identità o un Marlon Brando devastato dall’età.

Non ha insomma nessun bisogno di mendicare qualche parte in qualche film di secondo piano per scacciare la triste alternativa di una partita del Superbowl a casa con una birra di seconda marca tiepida in mano. Era e rimane un attore capace di performance di grandissimo livello, come dimostrato anche in tempi recenti, come nei bellissimi Il lato positivo Being Flynn. 

Questo Nonno scatenato non ha un solo, singolo, motivo che ci porti a consigliarvelo, non fa ridere le mente più bolsa o semplice e non aiuta nemmeno a non pensare dopo una di quelle giornate in ufficio dove persino ascoltare Alberto Angela è una fatica insopportabile.

Critici del calibro di Richard Roeper e Glenn Kenny lo hanno definito un abominio, uno dei film peggiori mai visti in un cinema, di sicuro il peggiore di questo 2016. Il fatto che non sia al primo posto della nostra worst 10 dedicata ai film peggiori del 2016, è perché lì si trova una primizia del male di ineguagliabile perfezione.

Voto: Toro Imbolsito…ma dici a me?

Alice attraverso lo specchio

Noi siamo qui a seppellire Tim Burton, non a tesserne l’elogio. Il male che i registi fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa.

Vi era un tempo in cui Tim e Jonnhy assieme erano sinonimo di fantasia, qualità, meraviglia e genio; si genio, non è possibile usare altra parola per definirli assieme e se non siete d’accordo chiudete gli occhi e ripensate a Edward Mani di Forbice, Il Mistero di Sleepy Hollow, Ed Wood, La Sposa Cadavere….

Tim Burton ha dimostrato grande discontinuità e poca verve diverse volte negli ultimi anni,  dividendo pubblico e critica come un regista qualsiasi. Il suo ultimo Miss Peregrine è stato accolto in modo discordante, così come capitato con Dark Shadows, ma è sopratutto con il personaggio di Alice che Burton sembra essersi deciso a complicarsi la vita.

Se già il primo film del 2010 (Alice in Wonderland) era stato accolto in modo molto tiepido e solo gli incassi erano stati buoni, con questo secondo capitolo Burton sembra decisamente essere rimasto vittima di un’amnesia artistica di innata ferocia. E poco importa che a dirigerlo sia stato chiamato James Bobin, è chiaro come il sole che è in tutto e per tutto una creatura di Burton, qui produttore, in ogni inquadratura, ogni musica, ogni dialogo

Questo film non solo tradisce il grande Lewis Carroll, ma dimostra ancora una volta come fare un buon sequel sia davvero un esercizio riuscito a ben pochi cineasti, di come i personaggi vadano approfonditi, sviluppati, pena lo scadere nel ridondante, nell’ovvio, del tronfio.

La sceneggiatura di Linda Woolverton è forse la cosa peggiore, dal momento che concepisce un iter narrativo adatto forse per i più piccini, ma che annoia ogni altro spettatore in modo inesorabile già dall’inizio, dove Alice (Mia Wasikowska) è costretta a tornare nel Sottomondo per sfuggire a problemi economici e familiari così mal concepiti da risultare assurdi.

I nuovi personaggi come il Tempo (Sasha Baron Coehn) e i vecchi come Tweedledum e Tweedledee, la Regina Rossa (Helena Bonham Carter) e la Regina Bianca (Anne Hathaway) sono quindi vittime di una trama che parte male e prosegue peggio, dal momento che il viaggio di Alice ha la sola giustificazione di salvare il Cappellaio Matto (Jonnhy Depp) da una sorta di depressione psicosomatica e null’altro.

Nessuna indagine sul proprio subconscio, nessun collegamento con la realtà sociale vittoriana ipocrita condannata da Carroll nelle sue opere, nessun colpo di scena.

Solo la solita CGI che ormai non ci stupisce neanche a sperarlo, soliti paesaggi dark in stile Burtiano e un insieme di cliché e di eventi così prevedibili e telefonati da farci pensare ad uno scherzo di cattivo gusto da parte di Bobin. L’orrendo finale zuccheroso e melenso non fa che involgarire il tutto, rendendo l’insieme l’ennesimo kolossal roboante, volgare e senza contenuto.

La cosa che più fa infuriare è che si è trattata di una operazione esclusivamente commerciale, atta a sfruttare il nome di Burton, i nomi degli attori, per mettere su un prodottino commerciale atto a rubare quanti soldi possibile al pubblico, un pò come successo con Jurassic World o Lo Hobbit.

Un crimine artistico premeditato. E imperdonabile.

Voto: Lasciate ogni speranza o voi che guardate.