Venezia 75 – Zan (Killing): recensione del film di Shinya Tsukamoto

Stupendo nella fotografia e nel montaggio, Zan diretto da Tsukamoto, è un film che non annoia mai.

Sicuramente Zan di Shinya Tsukamoto arriva con grandi attese nel rush finale di questa 75^ Biennale, con un regista di culto che ha rivoluzionato il rapporto tra cinema orientale e sperimentazione, spingendosi verso una linea estetica e semiotica di grande caratura e indipendenza per tutta la sua vita.
Entrato nella leggenda per la trilogia su Tetsuo e Vital, Tsukamoto con questo Zan spiazzerà anche i suoi fan più accaniti, già abbastanza colpiti dal fatto di avere a che fare con il suo primo film in costume, ambientato nel Giappone dell’800.
Protagonista è l’ambizioso e talentuoso samurai Mokunoshin Tsuzuki (Sôsuke Ikematsu), che oltre a dare una mano ai contadini che l’hanno accolto, addestra il giovane e goffo Ichisuke, della cui sorella maggiore Yu (Yù Aoi) è innamorato.
In un Giappone dove i samurai sono ormai al tramonto, per sconfiggere la povertà accetta di aggregarsi a Jirozaemon Sawamura (Tsukamoto), ronin esperto e valoroso che ha intenzione di raggiungere la capitale per offrire i servigi allo Shogun, sul procinto di essere soppiantato dalle nuove riforme ed armi imperiali.
Tuttavia un avvenimento sconvolgerà completamente la vita di Tsuzuki e della piccola comunità in cui dimora, con conseguenze tragiche e radicali per tutti.

Zan – uno dei film più coraggiosi e temerari mai concepiti da Tsukamoto

Cupo, attraversato da un tensione perenne, presago di morte e sofferenza, Zan può essere tranquillamente considerato uno dei film più coraggiosi e temerari mai concepiti da Tsukamoto, per il modo in cui distrugge mattone per mattone la figura del samurai, in tutta la sua retorica, pomposità e irrealtà, così a lungo celebrate dalla cultura e cinematografie giapponesi (e non).
Lo fa abbracciando in pieno una dimensione dove la realtà è scevra di ogni mediazione, di ogni abbellimento, dove non esistono buoni o cattivi, solo esseri umani, con buona pace delle facili chiavi di lettura con cui siamo soliti ammirare eleganti, nobili e letali samurai riparare torti o morire per l’onore.
Qui l’onore non esiste, la giustizia non esiste, tutto è relativo, tutto è assoluto nel mostrare un protagonista assolutamente perso in quelle incertezze e in quei dubbi di cui ignora l’esistenza, chiuso in un mondo di falsa illusione e disciplina che, nella realtà, copre le fattezze orripilanti di un caos totale.

Zan si dimostra sublime nel distruggere e mortificare nel suo iter narrativo, attraverso riferimenti palesi ed efficaci, il meglio della cinematografia cappa e spada nipponica.
I Sette Samurai, Zatoichi, 13 Assasins, Ichi, Rashomon, La Sfida del Samurai…tanti sono i film che sequenza per sequenza, immagine per immagine, Zan combatte con la realtà, la teatralità kabuki di un film dove più che i dialoghi (curati e centrali sia chiaro), contano però la gestualità, la carica emotiva, le grida, il sangue, la violenza ed il silenzio di una natura contenitore ignaro delle umani tragedie.
La spada, l’anima del guerriero, qui diventa la sua prigione, la sua palla al piede, prolungamento demoniaco del suo corpo, della sua anima, mostro che si nutre del sangue degli uomini che Tsukamoto descrive come mutevoli, pronti al sorriso come alla violenza, schiavi non del mondo in cui vivono ma di regole assurde alle quali si sentono incatenati.

Zan – un punto di svolta nella cinematografia di Tsukamoto

zan cinematographe.it

Anche l’amore, quell’amore sovente descritto come discreto, quasi platonico in molti film qui diventa qualcosa di inquietante, quasi di represso o violento, di non raggiungibile non in virtù del dovere o della sorte, ma della paura, del senso di colpa, dell’incapacità di amare.
Tsukamoto dipinge un ritratto impietoso e crudo del samurai, ridotto a perfetto assassino, macchina di morte che non conosce pietà o rimorso, empatia e che si nutre di un egoismo e un’autocompiacimento legati al potere di donare la morte a proprio piacimento.
Nessun codice, nessun coraggio, solo la mancanza di rispetto per la vita, per la sofferenza degli altri, la stessa che portò le truppe del Sol Levante a commettere atrocità per il Pacifico e per l’Asia durante il secondo conflitto mondiale.

Stupendo nella fotografia e montaggio, addobbato di una realtà sonora di enorme espressività, è diretto da Tsukamoto con una maestria che non annoia né conosci momenti di calo, anche grazie all’aver evitato di cadere nella tentazione di una durata troppo monumentale (diversamente da altre pellicole viste a Venezia).
Si tratta senza ombra di dubbio di un punto di svolta nella sua cinematografia, nella sua poetica, ma non di un separarsi da essa, quanto piuttosto di un’evoluzione, di una volontà di scoprire nuovi modi di parlare della prigionia dell’animo e della carne, delle trappole costruite attorno a noi e dentro di noi.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.7