RomaFF14 – Where’s my Roy Cohn: recensione del film di Matt Tyrnaure

Recensione di Where's my Roy Cohn? di Matt Tyrnaure - un ritratto schietto e senza troppi fronzoli dell'uomo capace di rivoluzionare la comunicazione politica (in negativo) come nessun altro.

Chi conosce un po’ di storia politica americana, sa che al nome Roy Cohn difficilmente si associano aggettivi e/o appellativi positivi, parliamo d’altronde di un uomo che – nell’esercizio della sua professione – diceva frasi del tipo “non mi interessa cosa dice la legge, voglio sapere chi è il giudice“. Tanto è bastato al giornalista Matt Tyrnaure, per dar vita al documentario Where’s my Roy Cohn? (2019) opera volta a delineare un quadro a tutto tondo di uno dei personaggi più curiosi, e certamente da prendere poco d’esempio, nella storia della politica americana (e non solo).

Where’s my Roy Cohn? racconta infatti della figura machiavellica di Roy Cohn, uomo capace – lavorando nell’ombra – di trasformare personaggi insulsi come Joseph McCarthy e Donald Trump – in oscuri e pericolosi demagoghi. Strutturato come un thriller, il documentario svela e ricostruisce l’ascesa del personaggio ritratto, rivelando in che modo sia riuscito a plasmare l’attuale situazione politica americana.

Where’s my Roy Cohn?: un ritratto schietto di un uomo dalle mille (malvagie) sfaccettature

L’opera di Tyrnaure procede cronologicamente delineando un racconto dal classico andamento “testimonianza-prova documentale” – nulla che renda Where’s my Roy Cohn? un documentario capace di lasciare il segno. Ciononostante però, è la mole di informazioni che ci vengono recapitate a renderlo di indubbio interesse storico.

Roy Cohn è stato infatti il viceprocuratore del processo per spionaggio nel caso Rosenberg nel 1951 ed era, infatti, il principale oppositore alle attività sovversive di sospettati agenti sovietici. La sua partecipazione al caso Rosenberg fu inesorabilmente rilevante, tanto che fu lui stesso a indicare al giudice Kaufman la pena di morte come condanna esemplare. Nel 1953 diventa consulente-capo del senatore Joseph McCarthy diventando rapidamente uno dei principali artefici del Maccartismo – nonché della persecuzione degli omosessuali perché ritenuti “minaccia alla sicurezza nazionale.”

Where's my Roy Cohn? cinematographe.it

Festa del Cinema di Roma 2019: il programma della 14esima edizione

È in questo frangente che entra in scena David Schine, propagandista anticomunista assoldato da McCarthy come consulente-capo il cui rapporto tra lo stesso e Roy Cohn, ha rappresentato uno dei punti nevralgici delle sedute Esercito-McCarthy. Durante tali audizioni infatti, veniva chiesto esplicitamente di che tipo fosse la natura del rapporto tra i due collaboratori, tanto da chiedere se una particolare prova fotografica provenisse “da un pixie“- che in America viene usato come volgare e dispregiativo di fairy/fatina, in una chiara allusione omosessuale. Non è un caso infatti che – come diretta reazione – Cohn e McCarthy fossero autori della cosiddetta “paura lilla” volta al licenziamento di decine di omosessuali da posizioni governative; reazione volta anche a occultare l’omosessualità dello stesso Cohn.

Cohn fu anche a capo della Lionel Corporation, una società di trenini giocattolo che dal 1959 al 1963, venne portata sull’orlo del baratro dallo stesso Cohn, per problemi di controllo qualità e di evidenti ed enormi perdite finanziarie. Ma il cuore del documentario è certamente il legame con Donald Trump – da cui l’attuale Presidente degli USA ha acquisito lo stile aggressivo e non-diplomatico.

Where's my Roy Cohn? cinematographe.it

Negli anni Settanta infatti, Donald Trump venne accusato di aver violato il Fair Housing Act dal Governo, sostenendo come l’allora “semplice” imprenditore, vendesse immobili ad afroamericani e non a prezzi largamente differenti in base all’etnia. Qui entra in scena Roy Cohn che intentò una causa contro il governo per 100 milioni di dollari, affermando che le accuse mosse fossero “irresponsabili e prive di fondamento“.
La situazione proseguì tra alti e bassi sino al 1978 con delle nuove accuse che si risolsero in nulla di fatto, ma abbastanza da permettere a Trump di seguire la via dialettica del machiavellico avvocato difensore – tanto da invocarne la presenza con il virgolettato che dà il titolo al film, quando nel 2016 venne indagato sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali.

Emerge così una figura a tutto tondo di Roy Cohn, un manipolatore fortemente aggressivo tra privato e pubblico, mostrandoci il contrasto tra l’uomo integerrimo del pubblico, e il dissoluto del privato – abbastanza da portarlo alla morte per AIDS nel 1984 (che lui spacciava a tutti per “cancro al fegato”).

Where’s my Roy Cohn?: la nuova frontiera del linguaggio politico

Un racconto volto così a testimoniare come un uomo vissuto trent’anni fa il cui motto era “attaccare per non essere attaccato” sia riuscito con il suo stile aggressivo a rivoluzionare completamente il linguaggio politico per come oggi lo conosciamo. Where’s my Roy Cohn? è infatti la dimostrazione delle strategie politico-comunicative dei Trump e Salvini della nostra generazione, dove l’arroganza diventa l’arma in più nel dibattito, perché capace di ottenere maggior risalto mediatico, impedendo la costruzione di un dialogo democratico.

Regia - 2
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 2
Recitazione - 1
Sonoro - 2
Emozione - 2

2