Venezia 76 – Vivere: recensione del film di Francesca Archibugi

Vivere è il racconto di una famiglia apparentemente normale, ma che in realtà nasconde molti più problemi e intrighi di quanto si possa notare a primo sguardo.

La solitudine può avere mille volti diversi – ciascuno dei quali possiede un proprio sfogo, un relativo mezzo di espressione – camuffati dall’attuazione di comportamenti e gesti inattesi e altrettanto inspiegabili. Tale sentimento, che genera un’ovvia insoddisfazione, spesso si viene a creare proprio quando si è, paradossalmente, circondati da tante altre persone che, per mancanza d’interesse o per proprio egocentrismo, non ascoltano, non si interessano agli individui come esseri umani, come esseri viventi.

Vivere è il racconto di una famiglia apparentemente normale, ma che in realtà nasconde molti più problemi e intrighi di quanto si possa notare a primo sguardo. La vita familiare sembra andare avanti grazie agli sforzi, seppur maldestri, di Susi (interpretata da Micaela Ramazzotti), insegnante di danza insoddisfatta della propria vita e moglie di Luca Attorre (Adriano Giannini), freelance allo sbaraglio, che cerca di ricomporre la sua esistenza, ricca di un fallimento dopo l’altro (sia in campo professionale sia nella vita privata). La  precaria stabilità della quotidianità della famiglia allargata Attorre inizia a sgretolarsi nel momento in cui subentrano alcune complicazioni, quali l’asma della figlioletta Lucilla e l’arrivo della ragazza alla pari irlandese Mary Ann – quest’ultima scoprirà le bellezze accecanti, ma anche l’oscurità, di una Roma pura e al tempo stesso seducente e accattivante.

Vivere tende a far dimenticare che, dietro al dramma della famiglia Attori, si nasconde una macchina da presa

Vivere Cinematographe.it

Francesca Archibugi, dopo aver ottenuto molteplici riconoscimenti per aver curato la sceneggiatura de La pazza gioia di Paolo Virzì, torna a raccontare uno spaccato di vita quotidiana di una famiglia comune, con tutti i suoi relativi problemi e dolori, facendo quasi dimenticare agli spettatori il fatto che, dietro al dramma della famiglia Attorri, si nasconde una macchina da presa. Ciò che accade sullo schermo sembra così reale da avere una sensazione di déjà vu, portando a un’immediata identificazione coi personaggi della storia, con le loro emozioni, sensazioni, atteggiamenti e azioni.

La sceneggiatura, che la Archibugi ha scritto insieme a Francesco Piccolo e Paolo Virzì, è molto semplice – non si discosta enormemente da altri drammi familiari italiani -, ma comunque lineare e schietta. Sono soprattutto le performance del cast, che vanta la presenza di Micaela Ramazzotti, Adriano Giannini, Massimo Ghini, Marcello Fonte, Enrico Montesano e Valentina Cervi, a suscitare un maggiore impatto sul pubblico. Ciascuno di loro rispetta il ruolo assegnato, non aggiungendo né togliendo nulla ai rispettivi personaggi, ma arricchendoli soltanto di quella giusta dose di realismo richiesta dalla regista.

Vivere si incentra sulla solitudine di ogni essere umano, soprattutto quando è circondato da altre persone

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Vivere presenta vari aspetti della solitudine, così come anche vari modi con cui essa può manifestarsi. Particolarmente interessante è il personaggio interpretato da Marcello Fonte, il vicino Perind, che bizzarramente scruta in maniera costante la famiglia, non perdendosi niente di ciò che accade dalla sua solitaria finestra sul giardino. È come se Perind fosse ciascuno di noi, che osserva le azioni degli Attorri, commentandole e giudicandole. Perind  riflette il proprio desiderio di vita e di interazione nel guardare come spettatore passivo ciò che fanno i suoi vicini di casa, tentando, spesso e invano, un approccio con loro. Eppure, nonostante la semplicità e la bontà che il personaggio di Fonte rivela alla fine, è come se la Archibugi, insieme ai co-sceneggiatori Piccolo e Virzì, sfidasse il pubblico: Perind è davvero un vicino di casa senza secondi fini oppure nasconde qualcosa? Non è strambo, o ambiguo, è semplicemente il personaggio solitario per eccellenza, colui che brama la compagnia di altre persone, senza mai raggiungerla; è solo un altro prodotto del contemporaneo isolamento sociale.

Nella società di oggi la solitudine è diventata una condizione più che mai esistente e concreta, accentuata in particolar modo dall’uso esagerato dei social network, che non hanno fatto che creare ancora più isolamento, impedendo la conversazione face-to-face e ancora di più, il contatto umano. Francesca Archibugi, anche se non inserisce la tematica dei social per individuare tale solitudine, è molto diretta nel messaggio che vuole dare: la comunicazione è la linfa vitale di qualsiasi rapporto, così come il contatto fisico e lo scambio di sguardi; quando queste cose vengono a mancare, inizia a crearsi un effetto domino che, se non viene bloccato tempestivamente prima che sia troppo tardi, può avere enormi ripercussioni negative.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 2
Emozione - 3

2.7