Venezia 80 – It isn’t so: recensione del film di Fabrizio Paterniti Martello

Il film in concorso alla Settimana Internazionale della Critica è un dipinto senza tempo, ciclico, della città in evoluzione e del continuo contrasto tra periferia e centro città.

It isn’t so è uno dei sette titoli originali, una delle opere prime, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica. La Mostra del Cinema di Venezia, con la sua proposta instancabile di nuovi talenti, funge da propulsore per prodotti che, in altro modo, potrebbero passare inosservati. Sarebbe, come in questo caso, un vero e proprio peccato. Il film presentato dal regista Fabrizio Paterniti Martello a Venezia 80 è un’opera prima intelligente, sagace, ricca di uno stile che promette grandi opere future ed una immaginazione organica, razionale ed eterea al contempo.

Risulta difficile, infatti, immaginare che si tratti davvero di un tentativo iniziale, del primo passo nel mondo, la prima pagina di un libro ancora bianco. Fabrizio Paterniti Martello presenta la sua opera con una solidità ed un piglio già maturi, da regista fatto e finito, e la sua “attitude” è una promessa che ha cercato al suo meglio di mantenere. Noi, spettatori, possiamo solo apprezzare e rispondere con un sonoro “sì” alla domanda implicita, quella presente in ogni proposta artistica. Non c’è bisogno di puntualizzare di quale domanda si tratti, perché ogni artista la sente riecheggiare dentro di sé ad ogni nuova creazione.

It isn’t so, un film che stupisce e rapisce nel chiaroscuro di una città-organismo

It isn't so recensione - cinematographe.it

It isn’t so racconta, tramite la voce fuori campo di un protagonista senza nome, la storia dell’amicizia tra il personaggio princiale e l’amico Lewis (interpretato dal giovanissimo attore Vincent De Paul con una grazie fuori dalla sua età). I due, entrambi neri, si conoscono sin da quanto erano bambini ma le loro strade hanno preso due direzioni opposte. Dopo aver condiviso infanzia, adolescenza e giovinezza, il protagonista – 21 anni e 216 giorni – ha deciso di studiare architettura mentre il suo compagno di vita ha ceduto alla durezza della vita di periferia, diventando un rapinatore.

Come la pellicola ci mostra in un’alternarsi perfetto di colori e bianco e nero, la città in cui i due ragazzi sono cresciuti vive di tensioni e scontri. Sembrano esistere, in effetti, due città: il centro e la periferia. I colori, per quanto utili a rendere l’idea della dicotomia tra i due ambienti, non servono mai a scindere e dividere precisamente la città. Nonostante il contrasto, la città viene vista e vissuta come un organismo vivente, partecipe della pellicola quanto i due protagonisti. Un agglomerato urbano che si evolve e cambia sotto la luce delle lune che orbitano intorno alla Terra, scandendo il passare di un tempo che sembra non trascorrere mai davvero. La città cambia sotto la luce della luna, ma la sua periferia resta immobile come un purgatorio dal quale non è possibile uscire, una terra di mezzo che promette solo la prospettiva di una via d’uscita ma continua ciclicamente a manifestare il mostro della violenza.

I due giovani vivono la città in tutte le sue manifestazioni, fino a fondersi con essa, emulando le sue false evoluzioni e cambiamenti. Non sappiamo quanto questa diversità sia solo un brulicare di vite cristallizzate nel tempo, sempre simili a loro stesse, e quanto questo movimento sia sintomo di esistenza reale. Siamo nella realtà di un luogo o siamo in una città introiettata dai nostri personaggi? Il dubbio non lascia mai davvero lo spettatore, che resta come imbabolato a vedere questo muoversi, questo agitarsi e spostarsi senza meta reale. Con pochi tocchi di pennello, attraverso scene che si alternano tra la vita dell’anonimo protagonista e gli scontri cittadini, il regista riesce a dipingere un mondo profondo, profano, oscuro. La speranza? Non gli appartiene propriamente, ma non è neanche esclusa. L’osservazione è il fattore chiave della narrazione, non la possibilità di una risposta soddisfacente.

Valutazione e conclusione del film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia

Un film intenso, abilmente giocato tra colore e bianchi e neri, affronta un tema delicato ma crudo: la differenza tra la popolazione del centro città e la gabbia della periferia. La padronanza del mezzo dimostrata da Fabrizio Paterniti Martello è esemplare, poliedrica, perfettamente in grado di raccontare la sua realtà.

L’atmosfera rarefatta e quasi imprendibile di questa visione cruda ma profondamente vera della vita urbana è davvero un raggiungimento unico, un punto di arrivo importante per tutta la cinematografia contemporanea.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.6