Unplanned – La storia vera di Abby Johnson: recensione del film di Chuck Konzelman Cary Solomon

Da direttrice di una struttura Planned Parenthood a convinta anti-abortista. Unplanned - La storia vera di Abby Johnson sembra porsi a metà tra le due fazioni estreme, ma solo fino ad un ricatto emotivo che trascina il film a pura propaganda. Nelle sale italiane dal 28 settembre.

Quello che ha visto ha cambiato tutto”. La frase a effetto che campeggia sulla locandina del film Unplanned – La storia vera di Abby Johnson, in uscita nelle sale italiane dal 28 settembre 2021, pone in enfasi a lettere maiuscole un fatto spartiacque ben preciso, inserito dai registi Konzelman e Solomon a inizio racconto. Un’epifania morale, e dunque politica, avvenuta nel Settembre 2009 in una sala operatoria della clinica Planned Parenthood di Bryan in Texas (non a caso), quando l’allora direttrice Abby Johnson, dal suo studio di scrivania e scartoffie, viene chiamata ad assistere ad un’interruzione di gravidanza alla tredicesima settimana.

Preso in mano l’apparecchio ad ultrasuoni e riconosciuto il feto già dotato di cranio, braccia, gambe e dita dei piedi separate, la protagonista è stravolta dalla visione su monitor di quell’essere minuscolo dalle dimensioni di un gamberetto ritrarsi e contorcersi con tenacia ostinata alla sonda-aspiratore che sta per risucchiarlo all’interno di una cannula ricolma di sangue e secrezioni, ed estrapolarlo così, e per sempre, dalla sacca amniotica della donna che ha scelto di non farlo nascere. Ecco quello che Abby ha visto e che poi ha cambiato tutto.

Unplanned – La storia vera di Abby Johnson è basato sul primo libro dell’attivista texana

unplanned la storia vera di abby johnson cinematographe.it

Distribuito negli Stati Uniti da Pure Flix Entertainment, compagnia privata di film cristiani per famiglie “con la passione di influenzare la cultura di Gesù Cristo attraverso i media” – si legge testualmente sul sito aziendale -, fra i molti nomi dei finanziatori del film spicca quello di Mike Lindell, controverso sostenitore di Trump, complottista e recentemente promotore di un’ambigua cura alternativa ma non riconosciuta per il Covid. Va da sé che il progetto intero della pellicola non sia vincolato puramente a fini artistici ed espressivi, ma che, una volta inquadrata la protagonista nel film (interpretata da Ashley Bratcher), ora fervida anti-abortista, anch’ella supporter dei valori Repubblicani convinta no-vax, contribuisca ad assimilare il film con occhi diversi e perciò legati a fini squisitamente propagandistici.

Basato sul primo libro della Johnson dal titolo Unplanned: The dramatic true story of a former Planned Parenthood leader’s eye-opening journey across the life line, il film ripercorre a partire dallo shock suo e dello spettatore, gli anni della carriera all’interno dell’attivismo pro-choice, sollevato da un reclutamento volontario ai tempi dell’università, e gradualmente giunto all’apice quando la studentessa di psicologia viene promossa a neo-direttrice dall’ex dirigente che anni dopo nell’ottobre del 2009 la querelerà per conto dell’azienda stessa.

La scalata al successo e la conversione/redenzione

unplanned la storia vera di abby johnson cinematographe.it

Valutata per la sua capacità persuasiva verso le donne ancora indecise, e sull’estrema freddezza dinanzi ai resti dei feti rassembrati in una stanza nominata P.O.C (“Pieces of children”, le risponde la collega con ambigua leggerezza spiegandole l’acronimo usato tra lo staff), Abby stessa ha alle spalle un matrimonio fallito e due aborti; uno in clinica, l’altro chimicamente a casa con la pillola RU-486, rischiando di morire dissanguata sul pavimento del bagno. Malgrado l’esperienza, resta convinta sostenitrice della libera scelta della donna, e ancor più decisa a non abbandonare la carriera in Planned Parenthood a seguito della nascita della prima figlia nonostante il parere diametralmente opposto dei genitori.

Quel fatto scatenante, ovvero l’unico feto visto sparire fra gli altri 22 mila aborti praticati nel corso di otto anni, la fa dimettere nell’Ottobre 2009 e la trascina in lacrime, senza dubbio alcuno, al circolo Pro-Life, conosciuto anche come 40 Days to Life, gruppo cristiano che quotidianamente circondava le ringhiere della clinica in cui lavorava tentando fra preghiere e pianti di intercettare le donne nel parcheggio dirette con più o meno fermezza verso il fatidico appuntamento, e dissuaderle a non farlo. Comincia allora il percorso di conversione/redenzione: cresciuta Battista, poi Luterana, e poi ancora Episcopale, recentemente la Johnson si è convertita al Cattolicesimo, ed è diventata una veemente oppositrice della genitorialità programmata, e dunque dell’aborto stesso, capace – come suggeriscono i titoli di coda del suo film – di convincere altri 500 lavoratori di Planned Parenthood di andar via dall’ “industria dell’aborto” e abbracciare la causa opposta.

Unplanned – La storia vera di Abby Johnson cerca il mero sensazionalismo, evitando di approfondire storie personali e dunque analizzare il dolore e la difficoltà di una scelta estremamente soggettiva

unplanned la storia vera di abby johnson cinematographe.it

Lungi qui dal giudicare il percorso personale della Johnson e nell’inoltrarsi su un dibattito attuale e a quanto pare eterno riguardo una scelta estremamente dolorosa e personale, la problematicità evidente sta nella messinscena intera del film e del messaggio inequivocabile che vuole veicolare. Unplanned, che esce nelle sale dopo la vittoria a Venezia78 del francese L’événement (Happening), punta infatti al mero sensazionalismo da estremizzazione corporea, ai rivoli di sangue che scendono copiosi dalle gambe delle giovani abortiste, edulcorando la ripetitività con la quale venivano praticate le interruzioni di gravidanza, ed enfatizzando il carattere arcigno e spietato a fini del profitto della dirigente della clinica.

Nel non approfondire alcun contenuto sociale sulle ripercussioni del portare avanti una gravidanza non desiderata, ma anzi nel semplificare la facilità di accesso alle cliniche, con Unplanned, dopo una prima parte che sembra porsi nel mezzo della causa, dipingendo l’organizzazione 40 Days to Life solo violenta in alcune sporadiche frange estremiste, e altresì mostrare le conseguenze dolorose e materne dell’aborto chimico o chirurgico, i registi Chuck Konzelman Cary Solomon non aspirano alla veridicità, ma alla verità filtrata da un occhio convinto che l’aborto non sia un diritto, e dunque il male assoluto da estirpare dalla società.

Quello che in quel giorno di settembre ha visto Abby, che nel frattempo ha dato alla luce altri sette figli, rimane discutibile anche nelle cartelle cliniche della struttura (alcuni quotidiani del Texas hanno scavato sulle dichiarazioni della donna facendo emergere dubbi e incongruenze), ma quello che vede lo spettatore in questa pellicola è tutt’altro che cinema per il femminile.

Regia - 1.5
Sceneggiatura - 1
Fotografia - 1.5
Recitazione - 1.5
Sonoro - 1
Emozione - 1

1.3