Un’ombra sulla verità: recensione del thriller di Philippe Le Guay

Il film è anche il chiaroscuro di un sé costruito sulla dimenticanza (che altro non è che una personale forma di negazione).

Con Un’ombra sulla verità, Philippe Le Guay, che conosciamo come regista eclettico, segue la scia del suo Trois huit per affrontare con coraggio il delicato tema del negazionismo. Non perde tempo il regista conosciuto soprattutto per Le donne del 6° piano, e ci porta nel “luogo della paura” sin dalla scena d’apertura di questo thriller psicologico: giù in cantina, in un ambiente che simboleggia un’angustia di spazio e di mente, claustrofobico e facilmente assimilabile a una camera a gas. Distribuito in Italia da Bim Distribuzione e prodotto da Anne-Dominique Toussaint, il nuovo lungometraggio di Le Guay, in uscita nei cinema italiani il 31 agosto 2022, riunisce nel cast principale François Cluzet (Chocolat, Hotel cinque stelle, Quasi amici – Intouchables), Jérémie Rénier e Bérénice Béjo (Fai bei sogni).

Il mistero dell’uomo della cantina

Monsieur Fonzic (François Cluzet) vuole acquistare una cantina messa in vendita a Parigi dai coniugi Simon (Jérémie Rénier) e Hélène Sandberg (Bérénice Béjo). La coppia non ha mai conosciuto prima il signore in questione che apparentemente è un uomo comune; si presenta come un insegnante di storia e confessa a Simon di aver perso la sua anziana madre da poco, e che quindi ha fretta di liberare il bilocale dove viveva la donna. Volendosi mostrare comprensivo e magnanimo, senza esitazione l’architetto firma una promessa di vendita e lascia le chiavi della cantina a Fonzic prima della sottoscrizione dell’atto: un’ingenuità che pagherà molto cara. L’uomo che ha già depositato le sue cose nel palazzo nasconde un passato disdicevole, e usa il locale anche per dormirci dentro. Ma cosa vuole davvero da Simon e da Hélène Sandberg? Fra le altre cose, Simon scopre che Fonzic è un convintissimo negazionista (nega la veridicità di alcuni fatti, in particolare l’esistenza dei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale, parla di “presunte prove“, di “presunte camere a gas).” Non solo. Pubblica su riviste pseudo-scientifiche ed è membro di un forum neofascista che ha sede a Barcellona. Lo sconosciuto inizia a far paura, a sconvolgere la routine della famiglia che lo ha accolto e ad infastidire molti dei vicini. I Sandberg tentano di farlo tornare sui propri passi ma sembra non vi sia nulla da fare: con le chiavi in mano la vendita può dirsi conclusa!

Un’ombra sulla verità – Odio negazionista all’opera nel riuscito thriller di Le Guay

Un'ombra sulla verità recensione cinematographe.it
©CarolineBottaro

Senza esplorare la natura delle correnti pseudostoriche e pseudoscientifiche, ma con la preoccupazione di combattere il negazionismo, fenomeno contemporaneo anche politico (perché negando la Shoah si negano le basi della democrazia) che può dilatarsi con Internet attraverso blog, siti e social network, Philippe Le Guay si concentra sul “modus operandi” di questa forma particolare di revisionismo storico e sui suoi potenziali effetti negativi. La macchina da presa gira e rigira scrutando il suo soggetto da ogni possibile angolazione, con inevitabili stacchi dal nero per poi far conoscere la verità che si nasconde dietro al personaggio dell’uomo qualunque (che diventa un temibile persecutore) e di Simon (le radici ebraiche della sua famiglia e tutto il non detto); con la macchina a mano e l’immagine traballante e malferma come lo sono i ragionamenti dei negazionisti, privi di solide basi argomentative-; con le inquadrature dall’alto (della loro presunta superiorità). Ne L’homme de la cave – per usare il titolo originale del riuscito thriller di Le Guay – il centro è la psiche dei protagonisti. La suspense nasce dai loro conflitti interiori, dal ripresentarsi dei fantasmi del passato risvegliati da Fonzic, dalle reazioni che i protagonisti hanno nel corso della narrazione.

Il film è il chiaroscuro di un sé costruito sulla dimenticanza

Il film, che per l’argomento trattato ci ricorda La verità negata (2016) con Rachel Weisz e Timothy Spall, è anche il chiaroscuro di un sé costruito sulla dimenticanza (che altro non è che una personale forma di negazione): l’effetto artistico di luce che riassume lo sguardo torbido e inquieto con cui ci viene raccontata questa storia che per la cupezza e per le sue ambientazioni sotterranee non respinge gli elementi del noir, e gioca sull’ambiguità dell’ossessione (il negazionista apparentemente innocuo è il buono che si “pone semplicemente delle domande“, conquista la fiducia di alcuni condomini e riesce persino a ingraziarsi la figlia di Simon). Nel tentativo di liberarsi dall’ingombrante presenza dell’uomo della cantina (un imbarazzo che assume una dimensione più universale), quest’ultimo finisce prevedibilmente per perdere la calma. Attraverso il personaggio di Monsieur Fonzic il regista riesce a scrivere il suo messaggio con chiarezza, a raccontare senza edulcorare, a farci arrivare il suono inquietante delle certezze di Jacques Fonzic che afferma di essere dalla parte giusta, dalla parte “delle domande“, “della ricerca“, di una verità “liquidata frettolosamente dalla storia“. Ma fino a che punto possono spingersi i suoi argomenti, la sua manipolazione, il suo vittimismo?

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.7