Under the Wire: recensione del film

Under the Wire racconta di una donna straordinaria che non vuole essere la storia, vuole raccontarla.

Ci sono documentari che raccontano, altri che mostrano, altri ancora che insegnano e poi ci sono quelli come Under the Wire, l’opera di Chris Martin che porta sullo schermo la tragedia dei civili intrappolati nella città di Homs, assediata dall’esercito siriano. Under the Wire scaraventa lo spettatore nel febbraio 2012 quando la leggendaria corrispondente di guerra del Sunday Times, Marie Colvin, e il fotoreporter Paul Conroy, entrano clandestinamente in Siria, raggiunti poi da Edith Bouvier, Rémi Ochlik. Marie non tornerà viva dalla Siria, morirà insieme al fotografo Ochlik. Il film è stato proiettato durante il Festival Internazionale a Ferrara (5-6-7 ottobre 2018) nella rassegna Mondovisioni, curata da CineAgenzia, in collaborazione appunto con il settimanale Internazionale.

Under the Wire: un documentario che fa vedere cose orribili

Fin da subito lo spettatore lo capisce, sarà un viaggio complesso, delicato e fortissimo quello di Under The Wire. Lo si comprende dai volti segnati degli intervistati, dalle loro voci spesso commosse, espressione di ciò che hanno vissuto, di ciò a cui hanno partecipato, del dolore per chi hanno conosciuto e perduto. Lo si comprende dai corpi feriti, dagli ospedali “da campo” a cui manca tutto, in cui si tenta di dare tutto, dai buchi profondi come pozzi che segnano le carni. Non c’è scampo, la guerra, il sangue, la morte sono davanti i nostri occhi.

Il documentario segue e sta accanto a Mary Colvin e a Paul Conroy, partecipa alle loro ricerche, al loro vagare per le terre più ferite del mondo. Mary e Paul sono compagni di lavoro e amici, hanno la stessa idea di giornalismo, la stessa idea di umanità e di disumanità. Sanno benissimo cosa sia la guerra, cosa voglia dire sentire il rumore delle bombe, eppure qui si trovano di fronte a qualcosa di diverso, un massacro senza se e senza ma, che non sembra finire mai. La giornalista e il fotoreporter devono e vogliono raccontare, perché sono consapevoli dell’urgenza di quelle storie di arrivare dall’altra parte del mondo; in più di un’occasione durante la sua lunga carriera Colvin avrebbe potuto tornare indietro, sarebbe potuta fuggire, invece no. Non lo ha fatto mai perché ha messo sempre al primo posto gli ultimi, i più deboli che altrimenti non avrebbero avuto voce.

Chris Martin torna con la memoria a quel lontano 2012, dopo l’arrivo di Colvin e Conroy a Homs. Tra immagini di repertorio, video amatoriali e ricordi di chi era lì ricostruisce quei giorni difficili, violenti e tragici e si costruisce anche Homs centro delle rivolte, luogo che verrà distrutto, dilaniato, ferito a morte, perché rappresentazione di tutto quel dissenso che il governo di Bashar al-Assad voleva azzerare.

La giornalista e il fotografo volevano andare proprio lì, mostrare i volti, gli occhi, sentire i racconti, le parole di chi non veniva interpellato dalla storia e dai giornali; ma anche solo entrare in città era complicato per due come loro (il regime di al-Assad sarebbe stato pronto a uccidere qualsiasi operatore dell’informazione). Sono rimasti a Beirut per una o due settimane, solo per cercare contatti, poi hanno attraversato le montagne tra il Libano e la Siria e hanno attraversato il confine di notte per campi minati, schivando i checkpoint dell’esercito regolare. Un viaggio di tre giorni che ha minato le loro menti e i loro corpi.

Under the Wire: una donna più unica che rara

Under the Wire Cinematographe.it

Under the Wire racconta di una donna straordinaria che non vuole essere la storia ma che vuole raccontarla. Non è un’agiografia di Marie, morta il 22 febbraio 2012, all’età di 56 anni, mentre lascia, assieme ai compagni, una sede media non ufficiale, allestita dai ribelli anti-Assad, nel quartiere di Bab Amr, durante l’offensiva di Homs, ma è il ricordo di una donna “più unica che rara” come dice Paul. Viene ricordata da chi ha lavorato con lei per il carattere complesso, eppure è stata di un’umanità dirompente, innamorata del giornalismo, vissuto come una missione, e della verità, intesa come faro da seguire e da inseguire.

Voglio raccontare la storia di tutti. Non sono numeri, ok?

Questo ha sempre detto Marie e questo ha sempre fatto. Cammina tra le donne e i bambini di quella terra trista e infelice, proprio le loro voci voleva far arrivare forti e chiare, vuole essere cassa di risonanza attraverso cui immagini e parole si fanno dirompenti. Under the Wire affonda il coltello sempre più, toglie l’aria stringendo il cappio intorno al collo dello spettatore che trema come una foglia e si commuove grazie al corpo di Marie, contratto nella tensione, nella paura e sciolto nelle lacrime quando il “panorama” è fin troppo penoso. Marie non può tacere di fronte ai bambini che muoiono sotto gli occhi dei loro parenti, non può tacere di fronte alla disperazione dei civili e alla falsità del governo assertore della guerra che non tocca nessun civile.

Il documentario procede con un ritmo quasi da thriller teso che fa partecipare in maniera addolorata e dolorosa chi guarda all’Odissea di Marie, Paul, Edith, Rémi e dei civili siriani. Marie è un’eroina che insiste e persiste nella sua battaglia, come una piratessa con la benda sull’occhio, testimonianza di una ferita in battaglia, poi segno distintivo di una donna che non retrocede in nome dei suoi ideali. L’assenza di Marie si sente, si percepisce nelle parole dei colleghi, di Paul soprattutto, con cui ha condiviso tanto, tutto, e anche drammaturgicamente. È un nome, una voce che aleggia, un nume tutelare per chi crede nella forza della parola scritta e nell’urgenza della verità, un vuoto incolmabile sia per un racconto che si costruisce intorno a lei (la sua morte rappresenta uno spartiacque per il documentario), al suo coraggio (continua a voler andare avanti nonostante tutto, nonostante il pericolo, nonostante le avversità), sia per chi l’ha conosciuta. Tutti i colleghi di Marie continuano a lavorare, nonostante le lunghe e faticose notti passate, feriti e “tenuti in ostaggio” ad Homs, nonostante la paura con cui hanno convissuto, nonostante il fragore delle armi e il buio rischiarato solo dalla luce sinistra provocata dall’esplosione delle bombe.

Under the Wire: il giornalismo come unica ragione di vita

Under the Wire Cinematographe.it

Per Marie il giornalismo era ragione di vita, o meglio parlare per chi non poteva farlo, narrare le storie più piccole ma rappresentative della verità più profonda e sentita. Marie è morta ma non avrebbe potuto né voluto tornare indietro, retrocedere. Lo dice Marie con ogni suo pezzo, con il suo ultimo – e forse più bello – articolo, una sorta di testamento, quella è la vita che vuole, quella di narratrice di piccole tranche de vie di piccole donne e piccoli uomini; lei è diversa dagli altri perché ha un’umanità che pochi altri giornalisti possiedono, così la ricordano. La Siria è stata la sua ultima guerra ma prima di essa ce ne sono state molte altre, dai conflitti d’Africa a quelli del Medio Oriente, dalla Cecenia al Kosovo, dalla Sierra Leone allo Zimbabwe e così via; lei, il suo volto, sono stati impressi sulle pagine del quotidiano per cui ha scritto dal 1985 alla sua morte. Under the Wire è un documentario necessario, intenso e sconvolgente, non solo perché molto spesso l’essere umano si dimentica di ciò che è stato e di ciò che ha compiuto, ma anche per ricordare quanto siano necessari dei reporter come Marie e i suoi sodali, come siano necessari degli eroi delle parole che possono, devono avere paura ma, come faceva Don Chisciotte, continuino a combattere la loro guerra in nome verità.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografiaa - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.3