Una stanza tutta per sé: recensione del film di Matan Yair

Un coming of age israeliano, che chiama in causa questioni edipiche e la funzione dell'esercito nella società israeliana.

Arriva in sala il 17 agosto 2023 Una stanza tutta per sé, film del regista israeliano Matan Yair, vincitore al Jerusalem International Film Festival 2023.
Seppure il titolo richiama un noto romanzo di Virginia Woolf, Yair parte da una sua esperienza personale, legata al rapporto con la madre e all’abbandono del tetto coniugale da parte del padre e costruisce uno spaccato della vita di un adolescente israeliano, nel momento di passaggio all’età adulta.

Una stanza tutta per se Cinematographe.it

Uri è un diciassettenne che vive la stessa situazione vissuta dal regista. Il padre lascia la famiglia e la madre inizia a dormire nella stessa stanza e nello stesso letto del figlio. La sorella Yara, tornata a casa dopo un periodo di assenza, dovuto al suo lavoro nell’esercito, sembra essere l’unica in famiglia a notare la peculiarità della situazione. Nel frattempo Uri fallisce il colloquio per entrare nell’esercito e non viene ammesso al viaggio scolastico, che prevede la visita del campo di concentramento di Treblinka in Polonia.

Una stanza tutta per sé: un coming of age israeliano

Yair si affida alla macchina a spalla per seguire il suo protagonista. Vi sono, nella messa in scena, alcune citazioni di certo cinema europeo, in particolar modo francese. Il modo di seguire i personaggi ricorda un po’ i Dardenne. Un’ inquadratura iconica, con Uri accovacciato, sopra cui campeggia la scritta play disegnata su un muro e il montaggio per ellissi di alcune sequenze hanno un sapore godardiano. L’impianto formale insomma è quello tipico del moderno film indie che vorrebbe descrivere una condizione giovanile difficile e marginale.

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Purtroppo però la scrittura non è altrettanto accurata nel fornire elementi in grado di scandagliare l’animo del protagonista, durante il passaggio all’età adulta. Il rapporto di matrice edipica con la madre è delineato in maniera superficiale, così come le motivazioni della donna. Uri è tratteggiato in maniera stereotipata. È magro, esile e dotato di un’intelligenza più acuta rispetto ai suoi coetanei, che gli rende difficile l’inserimento nel contesto scolastico. Eppure le domande che si pone risultano, nel migliore dei casi, strambe e tutt’altro che acute. La sua costante ricerca di una figura paterna, prima nel genitore assente, poi nell’insegnante di educazione fisica, è trattata secondo i più vieti canoni dello psicologismo melodrammatico cinematografico. Il ragazzo si sente incompreso, non capisce l’importanza delle regole imposte dall’insegnante o le decisioni da adulto del padre e dunque tenta di ribellarsi facendo i capricci – la scritta contro l’insegnante, sul muro della scuola – o tentando di imporsi come una figura di autorità maschile sulla sorella soldato. Mai però il ragazzo mette in dubbio i valori della società ai quali egli non riesce a conformarsi. Infatti basta un pomeriggio passato col padre, a sentire storie di guerra e perle di saggezza patriarcale, per risolvere tutto. Uri si conforma alle regole dell’insegnante, si emancipa dalla madre e infine accetta la sua posizione nella società, al di fuori dell’esercito.

Una posizione militarista

Ma attenzione, si badi bene, questa rinuncia non è una critica al ruolo sociale dell’istituzione militare nella società israeliana. Tutt’altro. L’esercito è rappresentato come un’istituzione fondamentale e necessaria, in quanto sottilmente legata alla tragedia della Shoah. Infatti i passaggi della crescita di Uri, e per estensione dei giovani israeliani nel film, sono due: il viaggio a Treblinka con conseguente riflessione sull’Olocausto e l’ammissione nell’esercito. Nella narrazione il percorso che porta a comprendere pienamente il primo è lo stesso che spinge a volersi rendere utili per la comunità con il secondo. Uri fallisce entrambi i passaggi, ma accetta lo stesso questa logica sociale (e politica), sussume la responsabilità paterna (non può fare il viaggio a causa della mancata firma del genitore) e così non viene espulso dalla comunità. Per il protagonista crescere, cioè abbandonare la stanza della madre, significa rinunciare alle proprie ambizioni e vivere a testa bassa, come gli suggerisce l’insegnante di educazione fisica. Uri deve accettare di buon grado la propria condizione di inadatto alla vita militare, in una società in cui il passaggio per tale istituzione è fondamentale per essere considerato un cittadino a tutti gli effetti – infatti in Israele non è consentito il rifiuto della leva per motivi di coscienza, pena la detenzione nel carcere militare (a riguardo si legga l’interessante “Lettera Shministim” di sessanta adolescenti israeliani, che ribadiscono il diritto a non arruolarsi, accusando le politiche di apartheid, neoliberismo e negazione della Nakba del governo israeliano).

Una stanza tutta per sé: valutazione e conclusione

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Una stanza tutta per sé presenta dunque allo spettatore una morale perniciosa che offre un quadro acritico di un’assetto sociale militarista, degno di uno Starship Troopers – Fanteria dello spazio (Verhoeven,1997) fin troppo reale. Poiché, va ricordato, l’esercito israeliano non è in lotta contro i nazisti. Fa invece parte di una macchina bellica che – al netto di tutte le varie e spinosissime ragioni storiche che hanno portato all’attuale situazione – è impegnata in una campagna militare di occupazione colonialista contro un intero popolo, quello palestinese, nei cui confronti si macchia costantemente di odiosi crimini di guerra. Il fatto che invece Yair rappresenti, con un tocco di progressismo à la page, l’istituzione militare per lo più attraverso donne forti ed emancipate – Yara e l’esaminatrice di Uri – non fa certo dimenticare quel carattere intrinsecamente reazionario e patriarcale delle politiche militariste dell’attuale assetto sociopolitico israeliano.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 1.5

2.6