Un giorno di pioggia a New York: recensione del film di Woody Allen

Una lettera d'amore alla Grande Mela e al fascino degli incontri che essa può regalare, ovviamente in un giorno di pioggia!

Cosa c’è di più romantico di una passeggiata sotto la pioggia scrociante che bagna le strade di Manhattan? Per i poeti e i sognatori come il protagonista Gatsby (Timothée Chalamet), e probabilmente anche per Woody Allen, che ancora una volta utilizza i propri pensieri, tic e abitudini per plasmare il suo personaggio principale, nulla. Eppure, Un giorno di pioggia a New York non è quel che potrebbe sembrare. O, almeno, non è quel che potrebbe sembrare a uno spettatore poco avvezzo a quella bizzarra amalgama fra irriverenza e sentimentalismo che ha spesso contraddistinto il cinema dell’autore, dimostrandosi ogni volta prodigiosa.

un giorno di pioggia a new york: recensione Cinematographe.it

Gatsby si lascia convincere dalla sua compagna Ashleigh (Elle Fanning), giornalista in erba, ad accompagnarla per un giorno a Manhattan per una buona ragione: la ragazza è riuscita a strappare un’intervista al rinomato regista Roland Pollard (Liev Schreiber), che sembra aver accettato volentieri l’incontro. In più, Gatsby è follemente invaghito di New York e l’occasione potrebbe rivelarsi ottima per passare un weekend inusuale. L’imprevisto, però, è dietro l’angolo: mentre ad Ashleigh si apre un mondo di artisti e celebrità pronti a passare del tempo con lei e a regalarle l’articolo perfetto (o lo scoop ideale), Gatsby s’imbatte in vecchie conoscenze che lasceranno il segno nella sua vita.

Un giorno di pioggia a New York: un poema d’amore dedicato alla metropoli

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Proprio come accadeva con la Parigi di Midnight in Paris e la Roma di To Rome With Love, Woody Allen sembra voler dedicare a New York un poema d’amore affrescando la propria città come un luogo magico che si erge su leggi e ritmi propri, un quadro chiassoso popolato da personaggi unici e abbellito dalle intense tinte di Vittorio Storaro, ormai fidato direttore della fotografia che dai tempi di Café Society ha preso le redini del lavoro di Darius Khondji insistendo su quei toni caldi in grado di tramutare in immagini l’atmosfera che avvolge il cinema del regista. Eppure niente, in Un giorno di pioggia a New York, lascia spazio a sensazioni di deja-vu o a ricalchi sterili di intuizioni adoperate in passato: se da una parte l’agglomerato di personaggi, le relazioni tramite cui sono connessi, i fili che muovono le loro azioni fanno tutti parte di un corredo ben allestito di idee generate dalla mente di un autore che conosce perfettamente i meccanismi dell’umorismo, è altrettanto lodevole il modo in cui scenette e situazioni dai familiari e inevitabili risvolti comici vengano rimescolate in maniera arguta e rappresentate in modo nuovo, mediante una regia fresca e inedita – abbonda l’utilizzo di insolite lenti grandangolari a sottolineare l’ampiezza degli ambienti newyorkesi – e un’estetica rinnovata, caratterizzata da una palette di colori che spazia dai gialli e i rossi “storariani” e giunge ad abbracciare i grigi (di Match Point) e i blu, che esordiscono così nel cinema di Allen.

Ed è curioso che l’opera con cui si stabiliscono i principali punti di contatto sembri essere proprio To Rome with Love; il film “maledetto”, quello più odiato, quello più bistrattato di tutti, che presentava un abbozzo di storie (l’ipocrisia dei neosposi, l’incontro casuale con una prostituta che si rivela amica e aiutante del protagonista) che qui giungono a costituire il vero nucleo del film, animato dalla stessa venerazione per il caos della metropoli e per le sorprese che riserva, senza contare il tutt’altro che idilliaco ritratto di volgari personaggi di spettacolo.

Il fascino di un film che racconta le piacevolezze dei sentimenti e gli incontri della grande città

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Nell’incarnazione di un giovane incompreso e forse incomprensibile, fuori dai cardini dell’epoca contemporanea, solitario nella sua quasi mistica adorazione di un mondo che fu (caratteristica che si riflette tanto nel look quanto nei suoi svaghi beffeggiati dai coetanei, Ashleigh compresa), Timothée Chalamet è per il regista ciò che prima di lui già furono Jason Biggs in Anything Else, Jesse Eisenberg in Café Society e To Rome with Love, ma anche la Cate Blanchett di Blue Jasmine o l’Owen Wilson di Midnight In Paris: una proiezione, un doppio, un alter-ego da modellare e nelle quali parole riversare una parte della personalità, più impertinente che mai e sinceramente innamorata del potere dell’ironia. Anche Ashleigh è una sognatrice, ma di quelle estasiate dal mondo delle apparenze, della finzione, proprio come la Cristina Ricci di Anything Else o la ancor precedente Juliette Lewis di Mariti e Mogli.

Il già noto, come svariate volte accade nel cinema di Woody Allen, viene rimestato e riscritto da capo, osservato con un occhio nuovo e arricchito da sfumature sempre diverse. Sfumature che a Un giorno di pioggia a New York conferiscono il fascino di un film classico impegnato nel racconto delle piacevolezze della grande città, della bellezza intramontabile di sentimenti che nascono, si trasformano, vengono rivelati o solo restituiti, ma soprattutto di quel fenomeno magnifico e indecifrabile che è il caso.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4.5
Recitazione - 4
Sonoro - 4.5
Emozione - 4

4.3