TRON: Ares – recensione del film con Jared Leto
Jared Leto, Greta Lee e Gillian Anderson sono tra i protagonisti di TRON: Ares, terzo capitolo della saga sci-fi inaugurata nel 1982 dal cult con Jeff Bridges. Dal 9 ottobre 2025 in sala.
Un bel paradosso. I quindici anni che separano TRON: Ares da TRON: Legacy (2010) – il secondo film della saga – contano più dei quarantatré dal primo capitolo, l’atto fondativo del franchise, il cult vintage TRON (1982). Quindici anni sono un bel po’ di tempo. Pesano, e non solo perché ci fanno capire quanto sia difficile, volte, farsi venire in mente l’idea giusta per ripartire ma anche perché, per la prima volta nella storia del franchise, le cose di cui parla il film, a dispetto della cornice sci-fi, sono in sincrono con le preoccupazioni del mondo circostante. È il 2025, insomma, in scena e fuori. TRON: Ares è diretto da Joachim Rønning e nelle sale italiane arriva il 9 ottobre 2025 per The Walt Disney Company Italia. Ha un bel cast che comprende, tra gli altri, il protagonista Jared Leto, la co-protagonista Greta Lee, Gillian Anderson, Evan Peters e il grande vecchio in persona – non è uno spoiler, non c’è TRON senza di lui – Jeff Bridges. Hanno ragione i critici americani quando sottolineano la strana, ubiqua natura del film. È proiettato nel futuro, ma è anche curiosamente nostalgico.
TRON – Ares: e se l’Intelligenza Artificiale non fosse il nemico?

Sceneggiatura di Jesse Wigutow; molto, del copione e delle più o meno fosche previsioni di TRON: Ares sul rapporto uomo-tecnologia, si riferisce ai turbolenti anni ’20 del XXI secolo e a un mondo in transizione (tecnologica) verso un futuro ignoto. Il film ha quello che serve per stuzzicare, tematicamente parlando, la curiosità dello spettatore: mondi virtuali (qui si chiamano Grid), Intelligenza Artificiale, capitalismo rapace e interrogativi etici appena sfiorati. Il mondo di TRON: Ares è segnato dallo scontro tra due compagnie del settore tecnologico, e tra due CEO. Da un lato c’è la Dillinger e il cinico, immaturo Julian Dillinger (Evan Peters), solo in parte tenuto a freno dalla mamma Elisabeth (Gillian Anderson). Julian ha sfruttato le risorse della compagnia e le possibilità del Grid per creare un esercito di IA/super soldati come Ares (Jared Leto). Ares, nei piani del suo creatore, è un’implacabile, profittevole macchina della morte. C’è solo un problema. Anzi due.
Ares e compagnia, tra tutti la temibilissima Athena (Jodie Turner-Smith), hanno un’autonomia di 30 minuti nel mondo reale. Per sbloccare i super soldati e garantirgli esistenza illimitata, Julian ha bisogno di recuperare il code permanence, seminato da qualche parte nel Grid da Kevin Flynn (Jeff Bridges). Il primo problema di Julian è che la CEO rivale, Eve Kim (Greta Lee), boss della Encom, l’ha trovato per prima, il codice, e vuole usarlo per fare il bene. La seconda brutta notizia per Julian – non sconvolgente quanto l’idea che possano esistere dei manager con un codice morale, ma quasi – è che Ares si ribella. La creatura si sfila dal cappio del creatore e fa di testa sua. Non si pensi a Terminator (primo capitolo), dunque. Jared Leto è tutt’altro che il villain di questa storia. Lui vuole fare del bene, o più semplicemente decidere da solo cosa diventare. È questa la novità.
L’idea più interessante è appunto questa voglia che ha il film di iniettare l’intrattenimento di spunti più succulenti, in maniera sfortunatamente troppo confusa per fare centro. C’è il reale e il virtuale, c’è l’ascesa dell’onnipresente Intelligenza Artificiale, c’è il problema dell’identità – chi è un essere vivente e chi no – e la fragilità dell’esistenza. A metà strada tra Pinocchio e Blade Runner – senza la surreale carica poetica, fortemente simbolica, di Carlo Collodi, né la follia visionaria di Phil Dick – e con una spolveratina di Frankenstein, TRON: Ares cerca di andare oltre l’ovvio in due modi. Prima, cercando di convincerci che il nemico (l’IA) potrebbe anche esserci amico. Poi, rovesciando la questione. È il virtuale che “contamina la realtà, non il contrario.
Proiettato nel futuro e nostalgico, il film chiede troppo a se stesso per funzionare al 100%

La tecnologia, ribaltati i rapporti di forza, ora è madre, anzi matrigna, dell’uomo. Il futuro è qui e dobbiamo prendere le misure; così sussurra, tra un inseguimento serratissimo e l’altro, TRON: Ares. È lo strano esempio di un cinema commerciale che fa le domande giuste, che capisce quando rispondere e quando è meglio evitare, ma che non ha il coraggio di portare all’estremo le sue premesse. La regia di Joachim Rønning cucina un’azione senza sosta, adrenalinica, maledettamente incalzante, sorretta dall’onnipresente colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross – qui sotto il vessillo dei Nine Inch Nails – sinfonia industrial elettronica non sempre eguagliata dalla forza dell’immagine, troppo convenzionale nonostante l’estetica di una certa eleganza veicolata dalla fotografia di Jeff Cronenweth.
TRON: Ares prova a ridiscutere in maniera spiazzante, in controtendenza con il sentire comune, il rapporto tra uomo e tecnologia, ma non ha la forza di sovrapporre profondità a intrattenimento. Non è che non ci provi, anzi. Che le riflessioni su IA, sentimento e realtà vs. mondo virtuale manchino di slancio non è il riflesso di un film che non ha ragione di esistere oltre un perimetro di azione, spettacolarità insistita e dinamiche narrative/sentimentali basiche. Il problema è un altro. Il principale, ineludibile, sconfortante problema di TRON: Ares è che prova a essere troppe cose: intelligenza e intrattenimento, tecnologia e calore umano, riflessione sul futuro e ritorno al passato.
Parla del mondo di oggi (e di domani) ma lo fa insistendo, in maniera visibilmente calcolata, sulla nostalgica fissazione per l’immaginario pop e le coordinate estetiche di un mondo che non esiste più. E così, gli anni ’80 sono ancora una volta la trappola da cui non si può evadere, il leitmotiv estetico e culturale (assolutamente non necessario) di un cinema che prova a fare entrambe le cose, guardare avanti e voltarsi indietro, senza il tempo sufficiente per assicurarsi che i due versanti – la nostalgia del passato e il futuro misterioso – si sviluppino in piena autonomia e senza pestarsi i piedi. Poteva, il film, osare di più senza tradire la sua vocazione commerciale e la congenita leggerezza. Nonostante la solidità dell’azione, e una fattura sopra la media del cinema commerciale americano, TRON: Ares accumula potenzialità ma non sa tradurle in forza esplosiva delle idee e delle immagini.
TRON – Ares: valutazione e conclusione
La confusione viene fuori anche dall’impressione di generale staticità delle performance, schiacciate su una rigidità unidimensionale. Troppi stereotipi e poca umanità? Se la cosa può funzionare per Jared Leto e il suo programma-che-diventa-uomo, bene intonandosi allo stile di recitazione decisamente stralunato dell’attore americano, per gli altri è un problema. Greta Lee ha con Eve il personaggio più difficile da tratteggiare – la CEO con un’anima, per cui si va oltre il concetto stesso di fantascienza – e riesce a renderla umana, imperfetta e credibile nell’azione. Eve è il cuore emotivo del film, ma non ci sono pieghe, o lati oscuri, con cui insaporirla. Per Evan Peters il problema è opposto: troppa avidità e immaturità, poca empatia. Il sacrificio più grande che TRON: Ares si autoimpone è il poco spazio riservato a Gillian Anderson. Non sa che farsene, il film, di Elisabeth, della sua maturità sofferta – Cassandra sui rischi del rapporto uomo-tecnologia, andava sfruttata diversamente – e del suo rapporto con Evan Peters. La dinamica madre figlio poteva essere approfondita con ricadute anche umoristiche, vivaci, succose. Nel cercare di essere troppe cose nello stesso momento, TRON: Ares trascura un po’ i suoi interpreti.