They Talk: recensione del film horror di Giorgio Bruno

Voci dall'aldilà che avvertono di oscure minacce. They Talk, in sala dal 28 luglio, mescola atmosfera e shock fisico, passato e presente, la vita e la morte.

C’è una sotterranea battaglia che They Talk combatte, riguarda la sua identità fluttuante. Il pendolo oscilla sempre, per il genere horror. A un’estremità la paura ottenuta per mezzo di un incessante lavoro sull’atmosfera, nel tono allusivo un’inquietudine rarefatta che si insinua e scardina la sicurezza dello spettatore. Soluzione sofisticata, ma di minoranza. Poi c’è l’altro estremo, l’orrore fisico, visibile, truculento. Il film, la regia è di Giorgio Bruno, nelle sale italiane dal 28 luglio 2021 per Vision Distribution, risolve il suo conflitto a metà strada. Sceglie l’atmosfera, ma non rinuncia a proposte più esplicite. Un compromesso ragionevole. Ma anche un gioco di equilibrio sulla carne viva del film, che aggiunge confusione al risultato finale.

Voci dall’oltretomba, che mettono in guardia sul futuro parlando del passato e del presente

They Talk cinematographe.it

Alex (Jonathan Sufvesson) sente le voci. Potrebbe passare come titolo alternativo di They Talk, spiega bene l’artificio che spinge il racconto verso il suo fosco epilogo (cha va scoperto in sala). L’orrore corre sul filo sottile di suoni catturati; voci e presenze che dall’oltretomba tentano la risalita verso il mondo dei vivi. Alex coglie i messaggi per puro caso. La ragione è il suo lavoro, tecnico del suono in un documentario, lavora assieme alla compagna Laura (Margaux Billard). Prima confuso, poi spaventato, poi sopraffatto, alla fine tutte le cose insieme. Cerca l’appoggio di Hal Yamanouchi, esperto di questioni paranormali, che gli mostra una parte di verità ma può aiutarlo fino a un certo punto. La risposta a molti degli interrogativi, svela il film, è sepolta nel passato del protagonista.

La storia scorre su un doppio binario temporale. Il passato è racchiuso in un pugno di ricordi d’infanzia di Alex, memorie dell’orfanotrofio che al colmo di tutte le coincidenze è proprio lo sfondo di alcune riprese del documentario. La chiave che accorda il tempo passato e il tempo presente è Amanda (Rocio Munoz Morales), problematica amica d’infanzia di Alex, testimone di un segreto doloroso e forse qualcosa in più. Le voci alludono a una minaccia nascosta, mettono in guardia sul futuro raccontando il passato e il presente. Ammoniscono il protagonista, mentre la progressione di eventi terribili che cesella di sangue la seconda metà del film pone Amanda in una posizione scomoda. Dura la vita di una sospettata di interferenze demoniache.

Viene voglia di saperne di più, sul passato dei protagonisti. Peccato che il film non riesca a bilanciare adeguatamente lo sfasamento temporale. Al di là delle ovvie necessità di suspense, che impongono al racconto di non svelare le sue carte con troppo anticipo per non vanificare il piacere sanguinolento dello spettatore, resta l’impressione che se They Talk avesse dato più coerenza e più sapore alla sua collezione di flashback, anche il presente ne avrebbe giovato.

They talk di Giorgio Bruno. Cinema dei sensi e fotografia dai toni cupi per raccontare la complessità della vita e della morte

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La partita tra atmosfera e shock fisico è vinta nettamente dalla prima. Merito, tra gli altri, del lavoro del direttore della fotografia Rocco Marra che immerge il racconto e le sue pedine in un clima cupo e soffocante. Il lavoro sull’immagine appesantita e malata, quasi una forza misteriosa si fosse messa all’opera per tirar via la speranza dal quadro, è il contributo più incisivo alla visione di They Talk.

Cinema dei sensi, l’udito è la chiave di volta per esplorare la complessità della vita e della morte. C’è qualcosa di vero e poetico, magari anche inquietante, nella sfuggente qualità dei messaggi ultraterreni (lo sono davvero?) che indirizzano Alex verso la risoluzione di un puzzle esistenziale complesso. Forse il legame tra il mezzo (il suono captato) e il fine (il mistero della vita) poteva essere meglio approfondito.

La recitazione è tesa, nervosa, squarciata da lampi improvvisi di violenza. Emotiva e fisica. La riflessione sul destino e sull’incomprensibilità dell’esistenza è frammentaria e non organica. Un po’ come le voci catturate per un attimo dal protagonista. Ma al netto delle imperfezioni, la cupezza dei toni e l’ombra nera posata dalla regia di Giorgio Bruno sulla storia fanno la loro parte, promettendo di regalare allo spettatore che si accosta al mistero del film l’agognata ricompensa: paura.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

2.5